domenica 21 marzo 2010

La sciabica ed il pescatore - frisceu de gianchetti

A volte, per gustare pienamente un piatto, anche il più semplice, anche se il piatto non c'è, e si tratta solo di un cartoccio di carta, di dita unte e lingue scottate, aiuta sapere da dove e come arriva quello che ci mettiamo in bocca:

Fa freddo stamattina, sulle spiagge del ponente, siamo a metà marzo e la tramontana tesa che arriva dai monti ha portato un'alba spettacolare, un cielo terso come si vede solo d'inverno qui in Liguria.

Il gozzo ha già riportato a riva la resta e allora ci mettiamo a tirare, pantaloni arrotolati al ginocchio perchè ci bagnamo i piedi, nel mare liscio come una tavola.

«Tia, tia; dagghe cianìn che se sciacca! Belinùn!»
(tira, tira; fai piano che si schiaccia! Stupido!)

Il capo-rete dà il tempo, bisogna tirare la rete lentamente, dentro ci sono i gianchetti, i piccoli delle sarde, non bisogna rovinarli, stasera è San Giuseppe e bisogna preparare i frisceu.

«E mèscite un po' bèl'òmmo»
(e sbrigati un po' bell'uomo, ironico).

Bisogna stare svegli, la rete, mano a mano che si recupera, va arrotolata, altrimenti si ingarbuglia.
Il cazziatone è di rigore, la difesa pure:
«Sbaglia finn-a o præve in to dî messa!»
(sbaglia persino il prete a dire messa!), ma si continua a tirare le reste, poi i bracci fino alla fine.

Il sacco è a riva, sembra un buon "pieno", anche oggi ci siamo guadagnati la giornata, e stasera le mogli avranno da lavorare in cucina.

La pesca con la sciabica è una pesca antichissima, già usata fin dagli egizi. Si pratica da riva (anche da barca ma è leggermente diversa) e occorrono diversi uomini per tirare la rete. Ancora oggi su alcune spiagge liguri, soprattutto del ponente, si può vedere anche se ormai sta diventando una vera rarità.

Il 19 di marzo è San Giuseppe, e tradizionalmente vengono preparati i frisceu di gianchetti, o bianchetti, novellame di sardine e acciughe, a casa o tra amici.

I gianchetti di sardine e quelli di acciughe sono molto simili e riconoscerli non è facile, ma i primi iniziano alla fine di dicembre e sono al loro massimo a marzo, mentre quelli di acciughe sono tipicamente estivi.

I frisceu che si preparano con questi pesci, sono rotondi, sono croccanti fuori e morbidi dentro, sono da mangiare subito, appena tolti dall'olio bollente.

Le mani unte e la lingua bruciata sono un piccolo scotto da pagare per questa primizia del mare.

Ingredienti per 4 persone:
2 etti di gianchetti
uovo
farina
aglio
prezzemolo
sale
nel caso siate persone serie raddoppiate le dosi che quelle sopra a me fanno fresco.

Preparazione:
Prepariamo la pastella con l'uovo, farina, un po' d'acqua, prezzemolo e aglio tritati fini, sale. Sbattiamo bene il tutto e lasciamo riposare un paio d'ore.
Aggiungiamo i gianchetti ben puliti e scolati e amalgamiamo bene il composto.

Mettiamo l'olio in una padella e scaldiamolo bene, friggiamo l'impasto a cucchiaiate. Quando sono ben dorati da entrambe le parti, scoliamoli e mettiamoli in un piatto con carta assorbente con un pizzico di sale fino. Da
mangiare ben caldi.

Ovviamente ci sono vari modi di gustarli, una delle alternative potrebbe essere la seguente:

Gianchetti al vapore

Ingredienti per una persona
200 g di gianchetti (o dipende dalla fame e dalle successive pietanze)
1 limone
basilico
olio (se lo trovate di olive taggiasche)

Preparazione:
tritare finemente il basilico ed emulsionarlo con l'olio.

In un piccola pentola versare due dita d'acqua, spremerci il limone e incominciare a scaldare dolcemente.

Nel frattempo risciacquare i bianchetti, sistemarli nel cestello per il vapore e quando l'acqua bolle sistemarli nella pentola, far cuocere al vapore per una decina di secondi quindi trasferirli in una ciotola, aggiungere una presa di sale e condire con l'emulsione di olio al basilico.

Semplice ma gustosa, con tutto il sapore del mare e la sensazione della sabbia fredda tra le dita dei piedi, la mattina presto.

domenica 14 febbraio 2010

Pesto e Batàn 1+1=3

Trenette al pesto, minestrone alla genovese, torta pasqualina, stoccafisso accomodato, pandolce genovese, zemìn di ceci, ma l'elenco potrebbe continuare a lungo, sono solo alcuni dei piatti fondamentali della cucina ligure.

E della cucina peruviana.

Giuseppe Canevaro, Emanuele Solari, Bartolomeo Celle, Giuseppe Sciutto, Giuseppe Saccone, Luigia Scheroni, Pietro Parodi, Pietro e Gregorio Pescetto, Michele Canepa, Giovanni Battista Parodi, sono tutti nomi molto comuni a Genova e dintorni.

Ed anche a Lima e dintorni.

La cucina peruviana è storia di evoluzione, di contaminazioni, di emigrazioni di popoli, di ritorni.

Una delle sue contaminazioni maggiori (certamente non l'unica) deriva dalla cucina italiana, che ha esercitato una influenza silenziosa ma costante, giungendo al risultato di far incontrare due mondi culinari molto differenti in origine.

E della cucina italiana, l'influenza maggiore è stata quella della cucina regionale ligure, soprattutto nella seconda metà del 1800.

Le trenette al pesto sono il piatto ligure per antonomasia, uno dei primi piatti di "pasta" introdotti in Perù, dove hanno cambiato nome in "tallarines verdes a secas".
I peruviani (criollos) aggiunsero al basilico originale gli spinaci, e tolsero i pinoli. In Liguria si usa pecorino sardo e parmigiano, in Perù, per non complicarsi la vita posero mano al "queso fresco", il formaggio fresco locale.

In Italia la pasta ha un posto tutto suo nella gerarchia del menù, in Perù i tallarines verdes sono la portata principale di un pasto, e, nella versione "montado", ovvero con carne fritta (la "milanesa") o uovo fritto sono particolarmente apprezzati.

Quello che in Italia potrebbe essere considerato aberrante, in Perù diventa uno dei piatti nazionali a tutti gli effetti, una delle icone della cucina italo-peruviana.

Lo stesso è accaduto con le tagliatelle con ragù alla bolognese, convertiti in tallarines rojos, ed oggi diventati piatto comunemente consumato in casa e al ristorante, nella versione peruviana con cumino tostato, origano, abbondanti carote e pollo.

Anche in questo caso, il piatto viene profondamente cambiato fino a convertirsi in qualcosa di nuovo, tipico ed esclusivo della cucina peruviana.

O ancora si potrebbero citare i tallarines con salsa huancaína, incontro della pasta italiana con una crema esclusivamente peruviana.

In alcune "fondas" ovvero i tipici ristoranti da strada peruviani, noi le chiameremmo trattorie se esistessero ancora le vere trattorie, si incontra la pasta combinata nei modi più variati, fino a pasta con riso, pasta con fagioli fritti, pasta come portata principale a colazione, e nel nord, anche pasta con cebiche, ovvero pesce fresco crudo marinato con limone e cipolla.

Giovanni Bonfiglio, sociologo di origine italiana, che ha investigato lungamente nell'incontro delle due tavole, dice che "in Perù, sulla base dell'influenza della cucina italiana, si sono sviluppati piatti tipici, che non sono più italiani, se non proprio peruviani", una forma elegante per dire che il peruviano, una volta che incontrò le tagliatelle, ne fece quello che gli pareva, nel bene e nel male.

E' importante notare che ci troviamo di fronte ad una cucina differente, ovvero non la cucina italiana esportata e deformata, che mantiene velleità di italianità (pensiamo ai fettuccini alfredo) come tante volte accade di incontrare in altri paesi, ma proprio incontro di materie prime, ingredienti, ricombinati ed evolutisi su strade diverse e nuove.

Ovvero, i tallarines verdes non sono la versione estera delle "trenette al pesto", ma un piatto nuovo, nazionale e con caratteristiche ben definite e non confondibili con l'originale italiano (neanche nel senso di appartenenza).

Ma dove ha inizio tutto ciò?

Nel secolo XVI giunsero in Perù gli spagnoli, dove incontrarono alcuni vegetali che mai avevano visto nel vecchio mondo.
Concentriamoci per un momento su due di questi nuovi vegetali che in Sud America si consumavano da sempre: la patata ed il pomodoro.

Gli europei se li portarono nel loro continente ed iniziarono ad assimilarli nella loro cucina, che, d'altro canto, aveva già subito importanti influenze dalle spezie indiane pochi secoli prima.

Secoli più tardi, con l'inizio della forte immigrazione cinese e giapponese in Perù, la cucina locale ricevette quello che oggi è considerato imprescindibile nei suoi piatti: il riso come accompagnamento.

Contemporaneamente, dall'Europa, ed in particolare dall'Italia, la patata ed il pomodoro fanno ritorno in Perù insieme alla forte immigrazione ligure, anche se in forma differente dall'originale esportato in Europa: la prima ritorna sotto forma di gnocchi, mentre il secondo come condimento per diverse ricette. Culturalmente si è trattato di un fenomeno di esportazione e reimportazione degli stessi prodotti, rielaborati ed utilizzati differentemente.

Alcuni prodotti, base sociale del sostentamento peruviano, vedi ad esempio il mais, sono stati esportati, cucinati ed aggregati differentemente e reimportati come piatto tipico italiano, come ad esempio la polenta, che in Perù è conosciuta e comunemente consumata, ma mantiene la sua connotazione di esclusiva italianità.
(la "polenta" peruviana, ovvero il tamales e la humita, ha consistenza, preparazione e presentazione profondamente differente).

Uno degli chef italiani più conosciuti in Perù, Ugo Plevisani, dice che "in Perù ci si trova davanti ad un matrimonio bifronte, quello che chiamo incontro tra Pacifico e Mediterraneo. Da un lato abbiamo l'influenza orientale, dall'altro l'influenza spagnola ed europea, che ha a sua volta ricevuto l'influenza araba, una sorta di primo rinascimento gastronomico europeo. La scoperta del continente americano fu l'altra grande rivoluzione culinaria europea, che, d'altro canto, arriva successivamente in Perù e si assimila ed integra nella dieta locale".

In altre parole, giunge un momento in cui differenti stili culinari si incontrano sulla tavola peruviana. Ed il vincolo tra la cucina peruviana e quella italiana inizia nel XIX secolo.

Punto centrale della Liguria è il porto di Genova, culla di alcuni tra i migliori marittimi del Mediterraneo. Questo porto è anche il luogo da cui partirono la maggioranza degli emigranti che si stabilirono in Perù, attratti dal commercio del guano e dai racconti di chi stava già facendo fortuna in Perù, oltre che spinti da un sempre maggiore impoverimento e perdita di prestigio della Genova di metà '800.

Nel 1840, gli italiani (registrati) in Perù erano 1 migliaio, quasi esclusivamente genovesi, nel 1880 superavano i 10.000 mentre nel 1903 arrivavano a toccare i 15.000 senza contare quelli che non si registravano agli uffici immigrazione.

La quasi totalità degli immigranti italiani che arrivarono in Perù entro la fine dell'800 provenivano dalla Liguria, quelli che non erano liguri arrivavano dalla provincia di Alessandria, poi si avevano altri sparuti gruppi di lombardi, veneti ed emiliani. Erano ripartiti in maggioranza a Lima e nelle città costiere, iniziando, ovviamente, dal Callao, che diventerà il futuro Porto di Lima.

La Guerra del Pacifico (1879-1884), significherà un primo grosso freno all'immigrazione italiana in Perù, che ricomincerà all'inizio del '900 ma sarà costituita ora, prevalentemente, da gente immigrata dal sud dell'Italia, con molti meno mezzi rispetto ai "commercianti" liguri che per primi arrivarono in Sud America il secolo precedente.

I primi commerci che si installarono in terra ferma nel corso dell'800, oltre ai servizi per il commercio del guano e del salnitro, furono servizi di ristorazione: fondas, picanterías, alcuni bar. Non esisteva cittadina costiera senza una "taverna" di italiani.

Quasi subito i liguri iniziarono a coltivare orti con diverse specie di vegetali. Nel 1854 il 40% degli orti di Lima erano di proprietà di italiani. Questo si tradusse nell'apparizione e diffusione di nuovi ortaggi, come le bietole, gli spinaci, i cavoli, i broccoli, le melanzane ed il basilico.

Mentre succedeva questo, l'alta cucina peruviana era ancora orientata completamente verso la Francia, però alcuni piatti provenienti dalla Liguria iniziavano a diffondersi ed a stuzzicare i palati della buona borghesia locale, grazie alle varie trattorie che spuntavano ovunque e grazie ad alcuni cuochi impiegati nelle case patrizie.

Questi primi piatti, che videro una approvazione prima della borghesia e poi una accettazione generalizzata sono appunto le trenette al pesto, il minestrone genovese, i ravioli di magro, la torta pasqualina, il "mondonguito" alla italiana (la trippa alla sbìra), e, per il pesce, particolare prelibatezza assunse il mosciamme (filetto di delfino) sopra agli altri.

Le acciughe, onore e vanto della moderna gastronomia ligure, avrebbero dovuto attendere ancora molti anni prima di venire rivalutate e "nobilitate" dagli attuali chef peruviani, essendo considerate un vero e proprio cibo per i poveri.

Tutti questi piatti vennero trasformati, rinnovati, integrati e assunsero una nuova connotazione non più emigrante, ma locale nella trasformazione culinaria degli ultimi due secoli.

E dunque pesto e mortaio, o meglio, batàn come viene chiamato in Perù, ingredienti e stili che sommati producono una terza nuova meraviglia culinaria.

lunedì 7 dicembre 2009

Lo Schizzo - Ifix Tchen Tchen

Tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80, proliferavano i romanzi pornografici, sorta di copia erotica degli altri fotoromanzi in cui si raccontavano storie più o meno banali o scontate.

Tra queste, edita in Francia e poi importata in Italia, esisteva "Supersex" dove l'attore protagonista, Gabriel Pontello, impersonava un alieno caduto sulla terra che, per sopravvivere nell'atmosfera terrestre, si era impossessato del corpo di un ispettore di polizia, per cui le varie storie erano incentrate su crimini e misfatti vari.

L'alieno protagonista poteva emanare un fluido misterioso che scatenava una pazzesca libidine e che eliminava ogni freno inibitore in tutti i presenti che si scatenavano in orge e giochetti vari.

Al termine di ogni amplesso, Supersex lanciava il suo "IFIX TCHEN TCHEN!" che era un grido di piacere e di liberazione allo stesso momento, ed indicava, appunto, l'arrivo dell'orgasmo condito da lanci di schizzi violenti del suo fluido organico che andavano ad imbrattare i corpi ed i visi perfetti di splendide attrici.

Schizzo che era plateale, esteriore, marcante, una vera e propria firma dell'attore.

Oggi, a 30 anni di distanza, la moda dello schizzo è venuta prepotentemente in auge in cucina, non più in bianco e nero come sulle riviste patinate dell'epoca, ma orgia tridimensionale ed a colori, schizzi e schizzetti di condimenti, salse, intingoli, che marchiano e segnano i piatti che ci vengono proposti.

Alcuni li chiamano "la firma dello chef in un suo impulso creativo".

Schizzano tutti, il grande chef come il piccolo cuoco di provincia, gli insegnanti ai corsi di cucina e perfino i pasticceri.
Si trovano schizzi anche ai buffet su tarte e tartine o dalla casalinga che ha preparato una cena un po' speciale per i suoi invitati.

Schizza Bottura, schizza Cracco, schizza Berton e schizza persino Adrià.
Anzi, mentre schizza idrogenizza istantaneamente in nuvola, chè lui è un Maestro anche dello schizzo.

Contemporaneamente, a certi deschi, spariscono oliera acetiera e saliera, il gustatore non può più schizzare in proprio, deve assogettarsi allo schizzo di altri, calibrato, colorato e perfettamente disposto, di traverso, di lato, in un angolo, tutto intorno o fin'anche al centro.

La auto masturbazione è esclusa.

Del resto lo diceva già De Sade: "Sistemati sul canapè, mia cara. Al resto penso io."

Ed alcuni grandi chef, come tanti Pontello ai fornelli, emanano un fluido magico, capace di instillare una vera e propria libidine, e con molto anticipo, ai loro ospiti che già assaporano nella loro mente l'orgia di gusti, aromi e schizzi finali che si sta preparando.

Forse, nel 2020, ricorderemo il primo decennio del 2000 come "l'epoca degli schizzi" similarmente a quando ci ricordiamo degli anni '80 e della panna.

O forse no, e gli schizzi di oggi verranno dimenticati nel rapido volgere di un boccone.

Senza neanche darci il tempo di esclamare: IFIX TCHEN TCHEN!

domenica 1 novembre 2009

Quando il pomodoro non c'era - Viaggio (ragionato) nelle salse ed intingoli

A guardare nei menu dei ristoranti o delle case di oggi, in Liguria il pomodoro sembra esistere da sempre. Invece da noi è arrivato tardi anzi tardissimo, ed ancora dopo si è imposto nei nostri piatti.

Ha iniziato ad essere coltivato solo come pianta ornamentale, come in quasi tutto il resto d'Italia, e fino a metà dell'800 non veniva utilizzato nella cucina ligure se non, raramente, nella sua forma da "insalata" (famoso è diventato il cuore di bue di Albenga anche fuori della nostra regione, solo nel corso degli anni 80 del 1900).

Quando G.B. Ratto, nel 1865, scrisse e stampò la Cuciniera Genovese, il pomodoro comparve per la prima volta in alcune ricette del libro, che risentiva, comunque, di notevoli influenze toscane.

Ma fino ai primi del '900 la cucina ligure era di fatto una cucina sostanzialmente "in bianco", come si è mantenuta in molte sue ricette ancora oggi.

Come ho già avuto modo di dire, la cucina ligure attuale si è sviluppata come contaminazione, nel corso dei secoli, di altre cucine, sia la piemontese, soprattutto nella riviera di ponente ed a Genova, sia con le cucine, i metodi e gli ingredienti che sono arrivati via mare nel corso dei secoli.

Gli influssi orientali si sono fatti sentire dapprima con le colonie genovesi in Crimea, ed i contatti con i popoli mongoli, ed in seguito con le varie ondate arabe che si sono susseguite nel Mediterraneo.

Dall'oriente abbiamo derivato molte preparazioni che oggi a buona ragione possono definirsi liguri, a seguito della ulteriore elaborazione dei metodi e contaminazione degli ingredienti sul nostro territorio, e tra queste alcuni dei nostri sughi, o sarebbe meglio dire salse, più famose.

E allora facciamo un piccolo viaggio nel mondo delle salse liguri, come si usavano e come vengono ancora proposte a tavola, tutte, rigorosamente, senza pomodoro.

Tutte le salse proposte di seguito non hanno una codifica ben determinata sia come ingredienti che come dosi, in quanto le singole famiglie spesso provvedono a modificarle a proprio uso. Vengono, quindi, riportati ingredienti e dosi che maggiormente trovano riscontro nella media delle ricette.

Nota: non verrà presentato il pesto, in quanto già se ne è lungamente discusso.



Agiadda (Agliata)
Zona di diffusione: Vessalico, tutta la valle Arroscia, entroterra ponentino, con varianti in tutta la Liguria fino a Sarzana.

Di questa salsa ne esistono varianti diverse, a seconda se ci si sposta più sulla riviera di ponente che in quella di levante, ed anche il nome cambia da agiadda ad aié.

Degli ingredienti originali, il primo che viene a mancare dirigendosi verso Genova è l'uovo, che rende questa salsa così simile all'aiolì francese.

L'ingrediente principe, comunque, rimane l'aglio, e possibilmente di Vessalico, che ha proprietà organolettiche precisamente individuabili.

Versione ponentina
La sua preparazione parte da ingredienti semplici ma la difficoltà sta nella "montatura" del tuorlo che, come in una maionese, si ottiene aggiungendo lentamente, a filo, l'olio, ovviamente extravergine di oliva.

Ingredienti:
un tuorlo d'uovo
2 spicchi di aglio fresco rigorosamente di Vessalico (Valle Arroscia)
olio extravergine di oliva
sale

Preparazione:
si pesta l'aglio nel mortaio fino ad ottenere un composto omogeneo.
A questo punto si aggiunge un pizzico di sale, il tuorlo d'uovo e, con grande abilità nel lavorarlo insieme al tuorlo, l'olio "a filo" (cioè facendolo scendere lentamente dal beccuccio dell'oliera), fino ad ottenere una densità cremosa.

La salsa dovrà risultare così "soda" da poter essere tagliata con un coltello.

Una variante, sempre presente nel ponente, è di incorporare il tuorlo d'ovo ma sodo, senza farlo montare come visto precedentemente.

Versione senza uovo
Uscendo dalla Valle Arroscia, al posto dell'olio viene sostituito l'aceto ed al posto dell'uovo, che scompare, la mollica di pane, trasformando così questa salsa in qualcosa di differente, ma ancora simile:

Ingredienti:
aglio
aceto
mollica di pane
vino bianco secco
sale.

Preparazione:
si mette nel mortaio l'aglio e la mollica di pane e si pesta.
Si aggiunge il sale e si diluisce con aceto e vino.
Il composto viene quindi fatto bollire per pochissimi minuti, prima di condire.

Con questa salsa si può accompagnare il bollito, oppure le verdure lesse, come i fagiolini all'agliata tipicamente genovesi, oppure il baccalà.

Esiste, tuttavia, una ricetta un po' particolare in quanto si utilizza del fegato e la poppa di vitella, che era una delle parti della vitella consumate tipicamente a Genova fino a non molti decenni fa:

Figaeto in aggiadda
Ingredienti:
Fegato di vitello
olio extravergine d'oliva
mollica di pane
un poco di poppa o milza di vitella
sale

Preparazione:
Tagliare il fegato a listarelle sottili e accomodarlo in una padella dopo aver riscaldato l'olio.
Rimestare con il cucchiaio di legno il fegato e cuocere a fuoco alto.
In precedenza pestare nel mortaio la mollica di un panino inzuppata di ottimo aceto e un poco di poppa o milza di vitello, prima sbiancata con una rapida bollitura.

Versare il preparato in una tazza e allungare con un altro poco di aceto.
Quando il fegato è quasi pronto sistemarlo da una parte della padella e nella parte rimasta libera versare il preparato.
Poi, con il cucchiaio mescolare, girando energicamente per non più d'un minuto.
Salare a piacere al momento di servire in tavola. Servire caldo.



Marò o Pestùn de fave (salsa di fave)
Zona di diffusione: Ponente ligure

Dal mare e più precisamente dai saraceni sembra derivare quest'altra salsa, a base di fave e dal colorito verde chiaro brillante.
L'etimologia della parola si presta invero a due diverse origini:
l'una mar-a dall'arabo salsa, e l'altra marò da marinaio, visto che di questa salsa sembrava farsene grande uso sulle imbarcazioni.

Anche nella ricetta di questa salsa gli ingredienti possono variare, ma la più antica è la seguente.

Ingredienti:
500 g di fave fresche
8 foglie di menta
aglio
olio extravergine di oliva
sale grosso
pepe
aceto.

Dopo aver pulito le fave, liberandole anche della seconda pellicina, si pestano (tradizionalmente) nel mortaio con le foglie di menta, l'aglio e un pizzico di sale grosso.

Pestare bene sino ad ottenere una pasta omogenea. Versare il tutto in una terrina ed aggiungere il pepe ed uno goccio d'aceto.

Diluire con l'olio ed amalgamare fino ad ottenere una consistenza semiliquida.

Esiste una versione più ricca e più moderna, che utilizza anche il pecorino grattugiato e la maggiorana nell'impasto.

Ci si può accompagnare carni alla griglia o pesce, oppure condire delle ottime trenette. Sembra che nell'uso originario si consumasse insieme a capra e pecora arrostite.



Machetto (pasta di sardine)
Zona di diffusione: Ponente ligure, oggi in tutta la Liguria

Anche questa salsa tra origine dal mare, ed anch'essa ha una corrispondenza in Francia, la pissala povenzale. L'origine è sicuramente molto antica, basti pensare al garum dei romani o al nuoc mam vietnamita derivati dalla fermentazione di piccoli pesci.

Nel ponente con questa pasta si condivano le focacce, da cui deriva nel tempo la pissalandrea o macchetusa, o ancora sardenara a seconda della zona di produzione.

La salsa anticamente veniva composta da sardine, specie le parti di scarto, come la testa, ma anche tutto il pesce, comprese le interiora, mentre al giorno d'oggi alle sardine si preferiscono le acciughe ed è stata modificata dall'introduzione del pomodoro tra gli ingredienti.

La versione originale è questa.

Ingredienti:
500 g di sardine medio piccole
olio di oliva extravergine
sale grosso.

Preparazione: le sardine vengono tritate e disposte in vasi di vetro, mescolando qualche minuto ogni giorno, sino ad ottenere una pasta omogenea. A seconda del grado di fermentazione che si vuole ottenere possono occorrere pochi giorni sino a qualche settimana.

Quando il machetto è pronto, aggiungere olio di oliva extravergine per ammorbidire il gusto ed aiutare la conservazione.

Con questa salsa si preparano gustosi crostini che vengono serviti insieme ad aperitivi e come antipasto, ci si possono condire focacce, fin'anche la pasta.



Pesto d'aglio
Zona di diffusione: Val Pentemina a Nord di Genova

Nuovamente una salsa a base d'aglio, ma con varianti: all'aglio si aggiunge l'olio e il formaggio grattugiato che un tempo derivava dalle formaggette locali, fatte stagionate, che ogni famiglia produceva per autoconsumo.

Il tutto si amalgama con la panna: una volta si utilizzava la crema di latte, quella affiorata lasciando riposare il latte all'interno di un recipiente largo (le gamelle smaltate), per una notte.

Una variante un po' più accettabile ai nostri moderni palati prevede l'aggiunta dei pinoli e un quantitativo inferiore di aglio.

È un condimento che tradizionalmente accompagnava la polenta. Si sposa però molto bene anche con le penne, le patate quarantine e con i ravioli alle erbe.

Non si sa esattamente il perché della sua origine: poiché gli ingredienti sono gli stessi del pesto, potrebbe essere nato come pesto senza basilico, visto la mancanza di quest'ultimo per buona parte dell'anno nella valle, ma è solo un'ipotesi.

Da notare che nel Tigullio, al pesto suole aggiungersi la prescinseua, oppure ricotta o, anche, un po' di panna fresca.

È probabile che anch'esso possa avere origini simili a quelle dello "aioli" provenzale e delle salse a base d'aglio della Spagna mediterranea (alioli) e della Grecia (skordhalià).

Nella pratica gastronomica anche questa salsa, come il pesto, presenta delle piccole varianti, come l'assenza di pinoli o la diversa quantità di aglio.

Difficile da reperire oggi, si trova quasi esclusivamente a Pentema, piccola frazione della Val Trebbia, per antonomasia il paese in capo al mondo, famoso per il suo museo di storia contadina e per il presepe che cerca di rilanciare le sorti di un paese in stato di semi-abbandono.

Ingredienti:
2-3 spicchi d'aglio
due manciate di pinoli
50 g di formaggio grana
due cucchiai di panna (non quella dolcificata)
30 ml d'olio
sale q.b.

Preparazione:
Pestare l'aglio, privo della pellicina, nel mortaio, insieme ai pinoli.
Unirvi il formaggio grana grattugiato ed una presa di sale.
Versarvi quindi l'olio ed amalgamare il tutto con la panna.

Prima di servire, allungare leggermente usando l'acqua di cottura della pasta. Da ricordarsi che se si dovessero aumentare gli spicchi d'aglio si ottiene una salsa dal sapore decisamente più forte; sarà bene quindi aumentare in proporzione anche gli altri ingredienti.



Sarsa de noxe (salsa di noci)
Zona di diffusione: Tutta la Liguria

Nell'antica Persia era già diffuso l'utilizzo di questa salsa che tuttora è presente nella cucina orientale e balcanica.

Fu presumibilmente all'epoca della Repubblica che i Genovesi trasportarono, via mare, se non la salsa, sicuramente la ricetta.

La "sarsa de noxe", quindi, fece un lungo viaggio prima di giungere da noi dove fu ben presto utilizzata per dar vita ad un ottimo condimento di consistenza cremosa, di colore bianco avorio dal sapore dolce in cui si riconosce chiaramente il gusto della noce.

Ideale per condire i pansòti (ravioli alle erbe, tipici liguri) dalla caratteristica forma triangolare, gli gnocchi di castagne, ed altro.
Anche questa salsa, come il pesto, presenta delle piccole variazioni nella letteratura e nella pratica gastronomica, come l'assenza di pinoli o la presenza a piacere della maggiorana.

Ingredienti:
250 g di gherigli di noci già puliti
un cucchiaio (g 25) di quagliata (prescinseua)
50 g di pinoli
tre cucchiai d'olio extravergine di oliva
la mollica di due panini
sale.

Preparazione:
pelare i gherigli di noci, dopo averli scottati in acqua bollente. Inzuppare la mollica del pane nell'acqua o nel latte e strizzarla: ciò impedisce che la noce formi olio e renda amara la salsa.

Mettere nel mortaio i gherigli di noce, la mollica, l'aglio, il sale e i pinoli e per chi volesse, la maggiorana.
Tritare bene e versare il tutto in una terrina dove il composto verrà diluito con il latte cagliato, scolato dal suo siero, e l'olio.

Mescolare gli ingredienti fino a quando non si saranno tutti ben amalgamati e la salsa avrà l'aspetto di una crema.



Sarsa de pigneu (Salsa di pinoli)
Zona di diffusione: Genova, ora in buona parte della Liguria

Oltre alla salsa di noci, un'altra salsa bianco avorio e di sapore più delicato della prima si presta per condire lasagne e pansòti: la salsa di pinoli.

Non si sa quando si è evoluta e da quando è stata introdotta nella nostra cucina, ma visti gli ingredienti, potrebbe nuovamente essere una salsa molto antica.

Ingredienti:
g 250 di pinoli
un cucchiaio (25 g) di quagliata (prescinseua)
un cucchiaio d'olio extravergine di oliva
la mollica di due panini inzuppati nel latte
sale.

Preparazione:
Pestare nel mortaio i pinoli assieme alla mollica di pane. Regolare il sale e unire gli altri ingredienti.
Mescolare il tutto aggiungendo l'olio per ammorbidire l'insieme.

E' da notare, come fino alla fine dell'800, in Liguria, sulle mense del popolo, l'olio che si utilizzava fosse olio di noci o di nocciole, in quanto l'olio d'oliva era troppo caro per un uso locale e si preferiva venderlo fuori territorio. Da questo uso, forse, si sono evolute salse come le due appena proposte.



Sugo di gherigli
Zona di diffusione: entroterra di Savona

Faccio un'eccezione per questo particolare sugo, in quanto la presenza del pomodoro è sia scarsa, sia una aggiunta più recente, visto che originariamente il sugo si preparava liscio e senza pomodori.

Fuori dall'entroterra di Savona non è conosciuta, e quindi la propongo con piacere.

Il suo gusto è delicatamente saporito ed il colore è dorato, è un sugo tipico del paese di Balestrino.
E' ottimo con le tagliatelle casalinghe, e ricorda una cucina semplice, frutto dell'utilizzo dei prodotti che la natura dei boschi circostanti offre, con l'aggiunta di soli pochi altri ingredienti, atti più ad amalgamare che a dare sapore.

Anche l'origine di questo sugo è più orientale come usanza, visti i gherigli delle noci utilizzate e le mandorle.

Ingredienti:
1 tazza di gherigli di noce, mandorle, e nocciole sgusciate
2 spicchi d'aglio
2 fette di pane raffermo
olio
conserva di pomodoro q. b. (molto, molto poca, 1 cucchiaio è
sufficiente)

Preparazione:
Far soffriggere in una casseruola, ben unta, le noci, le mandorle, le nocciole insieme agli spicchi d'aglio e al pane raffermo spezzettato.

Pestare il tutto nel mortaio, riporre quindi nuovamente nella casseruola con un cucchiaio di conserva di pomodoro, allungata con mezzo bicchiere di acqua tiepida.
Far cuocere a fiamma molto bassa sino a quando l'olio si separerà dal resto.

Condirci tagliatelle o pasta fatta in casa. Volendo rispettare filologicamente la tradizione, non aggiungere il pomodoro.



Salsa di carciofi
Zona di diffusione: ponente e Genova

Si pensa che l'origine di questa salsa sia il ponente ligure, anche se a Genova è abbastanza diffusa, ed inoltre Genova acquistava i carciofi direttamente dalla Sardegna, anticamente.

Si utilizza per condire lasagne o pasta fatta in casa.

Ingredienti:
3 carciofi
1/2 cipolla
1/2 bicchiere di vino bianco secco
1 cucchiaio di farina
1 spicchio d'aglio
prezzemolo
olio
sale

Preparazione:
Rosolare la cipolla tritata e l'aglio nell'olio, aggiungere i carciofi tagliati sottili, quindi a fiamma più alta unire il vino bianco ed un cucchiaio di farina e far svaporare.

Abbassare la fiamma e lasciar cuocere aggiustando di sale, per un quarto d'ora.
Al momento di servire tritare il prezzemolo sulla pasta con un filo d'olio crudo.

Finiamo questa carrellata con una salsa utilizzata con i primi di pesce, una preparazione che ancora si chiama "Pasta ai pesci saè".



Pasta ai pesci saè
Zona di diffusione: tutta la Liguria

La preparazione è semplicissima: si sciolgono un po' di acciughe nell'olio a fuoco dolce, senza far sfrigolare, in quantità da regolarsi a seconda dei commensali.

Quando le acciughe si trasformano in una salsa densa, simile ad una pasta, si aggiunge un trito di aglio e prezzemolo, che deve star sul fuoco pochissimo affinchè quest'ultimo non cuocia.

Si scola la pasta e si condisce con questa salsa, ottima corroborante per una giornata di lavoro.

sabato 26 settembre 2009

A qualcuno piace "hot"! Le rotte delle spezie (parte decima)

Nel XVIII secolo iniziarono a codificarsi le prime raccolte popolari di cucina, non più riservate alla sola nobiltà, quelle che più tardi verranno chiamate ricettari di cucina “tradizionale”. Occorrerà, però, aspettare l’800 ed il ‘900 perché le ricette inizino a stabilizzarsi ed assumano una connotazione a carattere veramente locale.

Nel frattempo gli alimenti che arrivavano dall’America iniziavano piano piano a prendere piede e con essi le spezie, soprattutto sudamericane. Tra esse spiccava il peperoncino, data la sua facile coltivazione anche nelle regioni sud europee, e dato il basso costo di coltivazione, ben presto andò ad affiancare il pepe, quando non a sostituirlo, nella cucina popolare.

Gia nel ‘700 la dietetica aveva cessato di guardare al passato, e le spezie calde dell’oriente avevano iniziato a perdere il loro fascino. L’unica che non doveva subire un arresto, ma, anzi, un incremento nel corso del tempo fino ad oggi, è il pepe che è ancora la spezia più commerciata a livello mondiale.

Riassumendo molto sinteticamente 5000 anni di storia delle spezie, abbiamo visto come esse entrarono nell’uso quotidiano passando prima, e per lungo tempo, attraverso l’uso derivato dalle filosofie religiose e mediche dell’antichità, facendo capolino in cucina solo in un secondo momento, per arrivare all’esplosione di sapori nel tardo medioevo e regredendo nuovamente in età moderna.

Lo studio dei due ricercatori, che ha dato origine a questo breve escursus, associa il consumo delle spezie alla loro proprietà antisettica, che indubbiamente è presente, e sostiene che esse vengano utilizzate fondamentalmente per questa ragione.

Probabilmente, però, questa sola ragione da sola non basta a motivare l’enorme diffusione che le spezie hanno avuto nel corso dei millenni, poiché anche a livello locale sono presenti spezie od erbe che assolvono egregiamente a questa funzione, ed in molti casi possiedono proprietà antisettiche di gran lunga migliori rispetto alle spezie importate.

Limitare l’analisi ai ricettari di cucina “tradizionale” di poco più di un secolo di vita, senza tenere conto dei movimenti dei popoli, dei loro usi e costumi, e dell’economia delle spezie nella storia a livello globale, vincola fortemente lo studio ad un periodo storico molto ravvicinato e non sufficientemente rappresentativo.

Un altro aspetto riguarda la distribuzione dell’uso delle spezie a seconda della latitudine di un certo piatto: molto maggiore nelle fasce tropicali e molto minore in quelle settentrionali o meridionali, associando questo parametro esclusivamente ad una maggiore deperibilità degli alimenti a causa del caldo e dell’umidità.

A questa approccio esclusivo possono essere mosse due obiezioni, entrambe valide.
Nelle fasce tropicali è presente la stragrande maggioranza delle specie vegetali del nostro pianeta, ed in proporzione, quindi, anche la maggioranza delle spezie ed erbe che vengono utilizzate nelle cucine di quelle regioni.

L’evoluzione delle comunità umane, da raccoglitori ad agricoltori, ha inglobato nella cucina gli alimenti che venivano prima raccolti e successivamente coltivati nel territorio di residenza, e naturalmente di questi alimenti fanno parte le spezie e le erbe, in misura tanto maggiore quanto maggiore è la loro presenza a livello locale.

La seconda considerazione riguarda lo sviluppo geografico delle grandi società del passato, nate tutte in regioni dove le spezie (ma soprattutti gli alimenti) erano abbondanti e che hanno avuto millenni di tempo per assimilare determinati sapori ed esportarli ai confini ed oltre dei loro imperi.

Per concludere, ritengo che alla domanda: “perché si usano le spezie in cucina”, non sia possibile dare una risposta univoca, trovata nelle ricette dell'800 e del '900, ma essa vada ricercata nella concorrenza di tutti quegli aspetti economici, religiosi, filosofici, medici, culturali che abbiamo visto nel corso di questa breve storia.

mercoledì 16 settembre 2009

A qualcuno piace "hot"! Le rotte delle spezie (parte nona)

La fine del monopolio orientale

Dal 1200 in avanti, si assiste ad un progressivo aumento delle importazioni di spezie da un lato, e ad una parallela diminuzione del loro prezzo dall’altro.

Fautori del deprezzamento delle spezie saranno due momenti storici importanti: la nascita delle Repubbliche marinare intorno al XII secolo e l’apertura della via delle Indie da parte dei Portoghesi all’inizio del ‘500.

Per secoli gli Arabi (ed i Persiani più a nord) e gli Indiani erano stati i detentori assoluti del commercio delle spezie, ma dal 1200 circa iniziano a dover dividere i loro profitti con Venezia e Genova, una per la parte orientale del Mediterraneo, l’altra per la zona Occidentale e l’area del Mar Nero.

Da questo momento in avanti, gli Arabi perderanno sempre più terreno nel monopolio dei traffici commerciali e verranno scavalcati dai mercanti ebrei e musulmani d’Occidente, ed infine dai cristiani.

Quando le Repubbliche marinare iniziarono a decadere, intorno al XVI secolo, i Portoghesi tenteranno di installare un loro monopolio su tutti i traffici via mare con l’India, essendo riusciti a stabilire delle rotte dirette circumnavigando l’Africa alla fine del ‘400.

Con vari sistemi di roccaforti portoghesi, impiantate su tutto il tragitto, dalle coste dell’Africa fino al Giappone, cercheranno di mantenere prezzi elevati, ma saranno ancora in concorrenza con i levantini, che cederanno completamente davanti alle flotte commerciali inglesi ed olandesi il secolo dopo.

A Londra il prezzo del pepe si dimezza nel momento stesso in cui l’Inghilterra prende possesso definitivo delle rotte commerciali verso l’India, ed il centro europeo di importazione delle spezie passa da Venezia ad Amsterdam.

Nel momento stesso in cui le spezie diventeranno economiche e facilmente accessibili a tutti, e ne potrebbe, quindi, essere notevolmente incrementato l’uso, si assiste in Europa ad un fenomeno completamente inverso: spariscono quasi completamente dai trattati di cucina della ricca borghesia e della nobiltà.

La Francia, subito dopo il rinascimento, si impone come guida di eleganza e raffinatezza in tutte le corti europee ed inizia immediatamente a dettare il suo stile anche in cucina. Stile che verrà copiato, quale sinonimo di buon gusto a tavola, dalle altre nazioni.

Se si vanno a leggere i trattati di cucina francesi editi tra il 1550 ed il 1650 ci si rende conto che il gusto dei francesi a tavola cambia profondamente in questo secolo. Delle spezie orientali che infarcivano i piatti medioevali prima e rinascimentali dopo, vengono più o meno abolite zafferano, zenzero, galanga, pepe lungo, pepe di Guinea (i famosi “grani di paradiso” medioevali), il macis, il lentisco ed altre ancora. La cannella cessa di essere utilizzata nei piatti salati e da quel momento in avanti verrà riservata solo alle preparazioni dolci.

Delle antiche spezie verranno mantenute, e comunque in misura minore, solo il pepe, il chiodo di garofano e la noce moscata.

I viaggiatori francesi si lamentavano già prima del 1650, nei loro racconti, “dei piatti neri di spezie e di zafferano” che incontravano dalla Spagna alla Polonia.

Alle spezie orientali, nei trattati di cucina, vengono sostituite aromi locali: erbe aromatiche, ma non menta ed issopo, agliacei come cipolla, scalogno e cipolletta di Spagna, tutti i tipi di funghi di cui è anche iniziata la tecnica della coltura, e condimenti provenzali come i capperi, le acciughe, i limoni e le arance amare importate dalla Liguria (le famose melangole).

Dal gusto acido e speziato del medioevo, l’aceto si usava un po’ dappertutto prima, si passa al gusto che predilige condimenti con salse grasse ed il burro diventa il grasso della cucina raffinata. Dal sapore mascherato da eccessivi condimenti si passa all’esaltazione del sapore proprio delle singole pietanze.

Un esempio chiarificatore, è quanto scrive nel 1654 Nicholas de Bonnefois, a proposito della preparazione e cottura dei cibi: “Cercate più che potete di far diversificare e distinguere tramite il gusto e la forma ciò che fate preparare: che un Potage de Santè sia una buona minestra borghese, ben nutrita di buone carni scelte, e ristretta in poco brodo, senza carne trita, funghi, spezie, né altri ingredienti, ma che sia semplice, poiché porta il nome della salute; che quella ai cavoli abbia tutto il profumo del cavolo, quella ai porri del porro, alle rape della rapa e così le altre, e vedrete che i vostri Signori staranno meglio, saranno sempre di buon appetito, e che voi ne riceverete gli elogi. Quanto ho detto sulle Minestre, intendo che valga per tutto, e che sia la norma per tutto ciò che si mangia”.

In un altro trattato, all’inizio del capitolo relativo al manzo, nella Cuisinière bourgeoise, Menon scriveva: “Non entrerò nei dettagli di quella che chiamiamo la carne di scarto. Questa carne è in uso solo presso il popolino, che si ingegna in preparazioni ricche di sale, pepe, aceto, aglio e scalogno per coprirne il gusto insipido”.

Quello che era raffinato nei secoli precedenti, i condimenti speziati e acidi, diventano volgari e viceversa, viene abbandonato il gusto “forte” e ricercato al suo posto quello “fine e delicato”.

Dagli storici vengono fatte varie ipotesi per spiegare questo radicale mutamento del gusto, ed il quasi totale abbandono delle spezie orientali.
Una prima identifica nel calo del costo delle spezie il contemporaneo calo di prestigio delle stesse e, la nobiltà, per ostentare la propria raffinatezza, si rivolge ad altri sostituti in luogo dei sapori orientali diventati banali.
Un’altra ipotesi attribuisce il calo di interesse nelle spezie al declino della medicina ippocratica e della sua dietetica, che a partire dal XVII secolo entra in un lungo periodo di decadenza.

Ma forse la spiegazione non è determinata da un solo fattore, considerando che nel frattempo si stava assistendo ad un cambio di mentalità globale in relazione al sapere, alla visione del mondo, ed alla percezione che le società europee avevano di loro stesse.

L’Illuminismo accellera il naufragio dell’antica medicina, delle antiche credenze sulla produzione umorale del corpo e dei benefici derivanti dall’uso di spezie “calde” o “secche” considerate efficaci secondo la dietetica greco-araba.

L’Europa medioevale situava il centro del mondo in Medio Oriente, dominato dall’Islam e considerato la terra di Dio, barriera geografica e politica invalicabile verso l’Asia e l’Africa interna. L’oceano Indiano era il mondo dell’ignoto e del meraviglioso, dei miti e dei pericoli, e l’Europa medioevale assorbiva i fiabeschi racconti orientali pregni di leggende e di mostri fantastici.

Ma dalla fine del XV secolo il mondo, per l’Europa, si allarga e cadono i confini e le barriere in concomitanza con le prime conquiste delle rotte commerciali. Inoltre, con la conquista dell’America, il centro economico si sposta dal Mediterraneo all’Atlantico, ed il prestigio dei prodotti orientali inizia a subire un netto declino.

L’organizzazione Indiana ed Araba, che ha funzionato quasi ininterrottamente per circa 4000 anni nell’Oceano Indiano, e che ha commerciato spezie, ma anche cultura, sapere, filosofia, cessa all’improvviso soppiantata da un modello di business tutto europeo, che da quel momento in avanti detterà la movimentazione globale delle spezie e decreterà o meno il successo di questa o quella spezia in cucina

- CONTINUA -

martedì 15 settembre 2009

A qualcuno piace "hot"! Le rotte delle spezie (parte ottava)

L'Europa medioevale e le spezie

In Europa si stava assistendo a due grandi fenomeni: la disgregazione dell’Impero Romano e la diffusione del Cristianesimo.

Assetto europeo dopo il 476


Tra il II ed il IV secolo, le invasioni barbariche riuscirono a demolire completamente prima i confini e poi la struttura stessa dell’Impero Romano, suddividendo l’Occidente in una miriade di stati indipendenti e soggetti ad organizzazioni nel commercio e nell’economia politica diverse tra loro.

Il sapere si rifugia nei monasteri, che diventano i centri ed i custodi gelosi e spesso occultatori, delle antiche arti filosofiche, mediche e scientifiche.

Per secoli la pratica medica regredisce in Europa, ed i manoscritti alto medioevali offrono solo un insieme di regole pratiche per formulare una diagnosi tramite l’osservazione del polso e delle urine, descrizioni sommarie di malattie dal nome greco sempre più storpiato, liste di erbe medicinali e ricette che attingono a fonti diverse.

Le pratiche dietetiche, ereditate dai greci e dai romani, erano modellate sul principio dei quattro umori prodotti dal corpo ed alla trasformazione delle proprietà degli alimenti mediante la loro manipolazione in cucina.

Gli scritti sopravvissuti venivano storpiati ed adattati ad una visione più “cristiana” del mondo, e molte antiche conoscenze venivano perse oppure occultate dai centri di potere nei monasteri.

San Basilio, fondatore nel 370 di un grande ospedale a Cesarea, scriveva che: “non tutte le infermità sono di origine naturale, perché alcune sono inviate direttamente da Dio per provare la nostra fede o per castigare qualche peccato da noi commesso”.

All’uomo del popolo medioevale, della dietetica medica in senso culturale importa poco, ricorda solo quello che gli è utile a supportare la sua esperienza nei problemi di salute più immediati e che rimanda a rimedi basati sulle antiche credenze nelle proprietà del calore e del fuoco.


Stretto da una parte dalla fede cristiana, e dall’altra da un Oriente che esercitava ancora un fascino misterioso molto potente, al sapere perduto sostituisce le credenze popolari: il solo contatto con le pietre preziose che arrivavano dall’Oriente era considerato capace di proteggere il corpo dalla vecchiaia, le spezie non scacciano solamente i fluidi malsani, ma li bruciano, ed attraversano l’immaginario medioevale ben al di là della cucina e della gradevolezza, staccandosene quasi completamente e diventando di fatto rimedio medico e panacea universale.

Ma per quanto riguarda la cucina e l’uso delle spezie che era così esteso durante l’Impero Romano?

La cucina medioevale in Europa

Dalla raccolta di ricette di Apicio del II secolo d.C. fino ai primi scritti di cucina medioevali del XIV secolo dovranno passare secoli, quindi si hanno solo indicazioni di massima sull’alimentazione popolare.

La stratificazioni delle classi sociali impattava tutti gli aspetti della vita quotidiana, compresi quelli alimentari. Ai nobili ed al clero venivano riservati cibi più raffinati di quelli destinati al popolo.

Dai registri di approvvigionamento dell’Abbazia di Corbie per l’anno 716, in testa agli acquisti si trovano pepe e cumino, seguiti da chiodi di garofano, nardo indiano e costus. Duecento anni dopo, in un altro registro della stessa abbazia compaiono anche la galanga, lo zenzero e la cannella.

Gli scambi commerciali con l’India non si erano interrotti, ma erano diventati enormemente più costosi per il fatto che le rotte commerciali non attraversavano più vasti imperi unificati, ma spesso e sovente transitavano in terre non soggette a stretto controllo e quindi insicure. Per l’uomo del popolo la spezia orientale diventa un qualcosa di irraggiungibile e che dovrà sostituire con altri sapori, più a buon mercato, raccolti nei campi.

Nei libri contabili del XIV secolo di alcuni mercanti di Montauban, paese francese ai piedi dei Pirenei, ritroviamo la stratificazione sociale legata agli acquisti.

Contadini, artigiani e braccianti non acquistano spezie, e se questo si verifica, molto di rado, l’unica spezia acquistata è il pepe. Salendo nella scala gerarchica, i mercanti oppure i borghesi si approvvigionavano costantemente di questa spezia, mentre clero e nobiltà acquistavano anche zenzero, noce moscata e cannella.

Mezzo chilo di pepe nel 1300 costava l’equivalente di un montone, mentre mezzo chilo di noce moscata più di una mucca.

Il popolo per trovare il calore, considerato indispensabile per una buona digestione, si rivolgeva ai campi e faceva un uso abbondante di aglio e cipolla.
Al posto delle spezie orientali, troppo care, J. Dubois nel 1544 nel suo trattato dietetico per un regime alimentare sano, destinato alla popolazione, consigliava una polvere fatta di rosmarino, salvia, issopo, santoreggia, timo, maggiorana, alloro e teste di cardo, con la quale si aromatizzavano minestre di verdure e brodetti.

Secoli dopo decantiamo e ricerchiamo il misto di “erbette provenzali” da aggiungere ad arrosti e zuppe casalinghe.

Le spezie in cucina erano diventate stretto appannaggio dei potenti e dei mercanti, così come altri prodotti oggi ritenuti di largo consumo, come zucchero oppure olio di oliva che, per esempio, in Liguria si inizierà a consumare stabilmente dalla popolazione solo durante l’800.

I trattati di cucina del XIV secolo sono scritti da cuochi al servizio di re o di nobili di alto rango, e rappresentano una cucina di corte più o meno uniforme in tutta Europa e che fa un uso abbondante di spezie.

Le più utilizzate sono zenzero, cannella, zafferano e chiodi di garofano. Il pepe nero è scarsamente menzionato, probabilmente perché la sua diffusione negli strati sociali più bassi ne diminuisce il prestigio. Compaiono anche, in misura minore e destinate alle mense più raffinate, cardamomo, macis, noce moscata e pepe lungo.

Un confronto tra una raccolta di cucina della fine del XIV secolo “Le Mesnagier de Paris” ed una sua corrispondente orientale, evidenzia che in Europa, a corte e dalla ricca borghesia, venivano utilizzate altrettante spezie che in Medio Oriente, differenziandosi solo per l’uso del coriandolo e del cumino, completamente abbandonati in Europa Occidentale da qualche secolo.

I ricchi piatti speziati mettevano in competizione le varie mense reali, e la spezia era diventata l’espressione più evidente di un determinato stato sociale, ricercata in quanto espressione del benessere economico dell’anfitrione.

Ma in soli duecento anni, come vedremo, tutto il sistema è destinato a crollare e le spezie orientali, da protagoniste indiscusse, spariranno quasi completamente dalle ricette europee.

La Francia, promotrice della cultura culinaria d’elite in Europa e nel mondo, detterà le nuove regole nell’uso delle spezie, ed il centro del mondo si sposterà nuovamente, abbandonando per sempre il Medio Oriente.

- CONTINUA -