giovedì 27 agosto 2009

A qualcuno piace "hot"! Le rotte delle spezie (parte prima)


A qualcuno piace caldo (some like it hot - caldo o "piccante") era il titolo di un bellissimo film dove Tony Curtis e Jack Lemmon (Geraldine e Josephine) scappando da una banda di gangster, finiscono in Florida in mezzo a mille guai.

Mi direte: cosa c'entra un film come quello in un blog di cucina ligure-peruana? Niente, ma era un ottimo inizio per parlare di spezie, e quelle, come abbiamo visto qui e qui c'entrano e parecchio con la cucina ligure-peruana (e non solo con quella ovviamente)!

Nel 1999 due antropologi americani, Paul W Sherman e la sua studentessa Jennifer Billing, si sono messi di impegno ed hanno sostenuto scientificamente un approccio di tipo darwiniano al perchè utilizziamo le spezie in cucina, dando alle stampe il risultato dei loro studi in questa pubblicazione scientifica: "Darwinian gastronomy: Why we use spices - Some like it hot".

Riassunto brevemente, il loro studio dimostrerebbe che utilizziamo le spezie perchè "ci fanno bene", soprattutto dal punto di vista preventivo-medico e questo grazie ad una evoluzione, appunto darwiniana, nel gusto della nostra specie.















Quello che però lo studio non affronta, è tutto il contesto socio-culturale nel quale si è sviluppato questo enorme mercato mondiale delle spezie, relegando ad una mera roulette di "uso le spezie e sono avvantaggiato"-"non uso le spezie e sono penalizzato", lo sviluppo di una cucina speziata nel mondo.

Non spiegano, in definitiva, perchè in molti paesi vengano utilizzate spezie importate dall'estero e viceversa, e come la natura umana, elevata al di sopra di semplici cause ed effetti, abbia in realtà consapevolmente adottato determinate scelte per gestire il controllo della movimentazione delle spezie.

Per provare a dare un senso alla diffusione delle spezie in tutto il mondo, iniziamo un lungo, lungo viaggio, tra genti misteriose e mari sconosciuti, sulle rotte delle spezie.

L'inizio: incenso e mirra, e più tardi la cassia

La Regina egizia Hatshepsut aveva dato l'ordine, e velocemente i comandanti fecero muovere le cinque grandi navi verso il Sud, verso la leggendaria terra di Punt. Gli equipaggi ancora non lo sapevano, ma molti mesi dopo sarebbero tornati in Egitto con le navi ricolme di preziosissimi prodotti, legname pregiato, scimmie dalle lunghe code, levrieri, pelli di leopardo, ed, infine, gli unguenti insostituibili: incenso, mirra e cassia.

Gli inviati, giunti a Punt, trovano dinanzi a sè un terreno pianeggiante e fittamente boscoso.
Le capanne coniche degli abitanti sono costruite in gran quantità. Vicino ad esse, greggi di mucche riposano tranquillamente all'ombra di un gruppo di alberi, mentre strani uccelli volano in cielo.

Il comandante della spedizione vede arrivare il capo villaggio, accompagnato dai familiari. Parihu, questo il suo nome, è adornato da una grande collana di perle, e porta una barbetta lunga e fina, rivolta all'insù.

Ma la loro attenzione è catalizzata dalla moglie del capovillaggio, Ati.
E' una donna enorme, obesa, eccessiva, con rotoli di carne su braccia e corpo, e porta tatuate sulle guancie due linee che partono dagli angoli della bocca fino a raggiungere quasi le orecchie.

Parihu, visibilmente sorpreso, chiede al capo della spedizione: "Come siete arrivati in questa terra sconosciuta agli uomini dell'Egitto? Provenite dalle strade del cielo? O avete navigato il mare di Ta-nuter? Dovete aver seguito il percorso del sole. Per quanto riguarda il Re dell'Egitto, non ci sono strade che siano inaccessibili alla Sua Maestà; noi viviamo dell'aria che egli ci fornisce."

Il capo della spedizione egizia chiede che vengano portati i doni per il principe di Punt: perline, collane, braccialetti, ascia e daga da cerimonia. Parihu, in segno di riconoscenza ed omaggio verso la regina egiziana, ordina di accumulare i prodotti migliori della propria terra vicino alle navi.

Vengono così portati alberi di incenso, alberi di sicomoro per estrarne la mirra resinosa, sacchi di cassia, tronchi d'ebano, scimmie, giraffe, puro avorio, oro e agate.

In Egitto, la pratica dell'imbalsamazione dei corpi è sorprendentemente antica. I corpi iniziarono a essere imbalsamati tra il 2613 e il 2494 a.C. sotto i faraoni della quarta dinastia. Già nel 5000 a.C., però, i corpi venivano preservati tramite la sepoltura nella sabbia calda e secca del deserto. Vere e proprie tecniche, che implicavano il ricorso a sostanze dotate di proprietà antibatteriche, furono usate tra il 1567 e il 1200 a.C.

La mirra e la cassia (cannella cinese) erano due tra gli unguenti utilizzati per l'imbalsamazione, mentre l'incenso veniva bruciato nei riti di sepoltura egizi.

La misteriosa terra di Punt, origine del commercio di incenso, mirra e, più tardi, ma di fondamentale importanza, della cassia verso l'Egitto, si pensa che fosse situata sulle rive occidentali del Mar Rosso, in piena Somalia. Di questa regione sono originari gli alberi dell'incenso, mentre più ad est, verso il Corno d'Africa, è originaria la mirra.

Il primo viaggio conosciuto verso questa regione è quello organizzato dal faraone Sahure della quinta dinastia (circa 2550 a.C.). Le sue navi riportarono incenso, mirra, oro, argento, legno prezioso e schiavi da Punt e da molte altre terre ed isole che incontrarono durante il viaggio.

Il faraone Asa (Isesi) seguì l’esempio di Sahure e intorno 2400 a.C. spedì anche lui le sue flotte alla terra di Punt.

I più noti e forse più fruttuosi, fra questi viaggi, sono quelli organizzati dalla regina Hatshepsut (1501-1482 a.C.) e documentati nei bassorilievi del tempio di Deir-EL-Bahari, che lei stessa fece costruire a Tebe in onore di Amen-Ra. La spedizione principale di Hatshepsut si componeva almeno di cinque grandi navi con trenta rematori in ciascuna. Essi partirono da qualche luogo del Mar Rosso e rimasero assenti per tre anni.

Secondo i racconti sulla vita di Ramses IV nel papiro Harris, conservato nella British Library, il faraone Ramses III inviò una spedizione di 10.000 uomini a Punt nel 1180 a.C.

L'ultima spedizione che conosciamo, circa a metà del secondo secolo a.C., fu organizzata con l'aiuto dei commercianti e dei banchieri di Massilia, la moderna Marsiglia.

La cassia, la prima tipologia di cannella che arriverà nel Mediterraneo intorno al 2000 a.C., ed anch'essa fondamentale per le procedure di imbalsamazione, proviene invece dal sud della Cina, ma all'epoca era già coltivata in Malesia. Da qui, attraverso un viaggio di 5000 miglia nell'Oceano Indiano su canoe a due galleggianti ed un albero, veniva portata direttamente in Madagascar, per passare nelle mani dei commercianti arabi che l'avrebbero portata più a nord, verso il Mar Rosso e la terra di Punt.

Il grande sviluppo delle tecniche di imbalsamazione aumenta la domanda di spezie: agli originari incenso e mirra, che venivano prodotti nel continente africano, si aggiunge la richiesta di cannella che arriva dalla Malesia (e successivamente dall'India dove si inizieranno produzioni intensive di cassia per soddisfare la nuova crescente domanda dei mercati egiziani).

Sia l'incenso che la mirra hanno ottime proprietà antisettiche, non certo inferiori a quelle della cassia, che verrà però importata per incrementare il volume totale di unguenti richiesti in Egitto, non bastando più la sola produzione locale di incenso e mirra.

In questo modo, l'oriente inizia a guardare all'occidente, iniziando una esportazione redditizia di spezie, merci e prodotti primi.

Ma per aumentare la gamma di spezie esportate e stabilizzare il flusso di prodotti dall'oriente, i nuovi consumatori dovevano essere predisposti a riceverli.

Una vera e propria apertura dei mercati e valorizzazione dell'immagine di un marchio, che verrà portata avanti da due elementi fondamentali: il primo accomunava India e Grecia ed il secondo... molto più legato ad una moderna azione di marketing vero e proprio.

- CONTINUA -

martedì 25 agosto 2009

Il pesto. Quando alla tradizione si vuole mettere una camicia ingessata

BANDIERA VERDE DELLA CUCINA LIGURE


Mio nonno ha 80 anni. Quando lui era piccolo, in Liguria, si mangiava il pesto.
Suo nonno è morto ad 80 anni. Quando suo nonno era piccolo, in Liguria, si mangiava la salsa all'aglio.

Ed il pesto non esisteva.

La salsa verde, che ha reso famosa la Liguria in tutto il mondo è, in realtà, un condimento che ha subito notevoli variazioni e trasformazioni nel tempo, fino ad arrivare alla ricetta "temporaneamente definitiva" di oggi.

C'è chi, in tempi recenti, ha richiesto la DOP, cercando di "fissare" un disciplinare per la preparazione del pesto, e degli ingredienti necessari.

In realtà, ci si potrebbe chiedere se abbia un senso porre dei limiti alla naturale evoluzione del gusto, e se, invece, tutto questo non abbia alle spalle precisi obiettivi di tutela commerciale, in un mondo sempre più piccolo, dove i prodotti locali diventano internazionali e sfuggono totalmente al controllo del produttore di origine.

Prima del pesto, l'aglio
Se vogliamo risalire alle origini del pesto attuale, non abbiamo bisogno di scavare nei secoli della storia: è nato e si è affermato in un periodo che va dalla fine dell'800 agli inizi del '900.

Ma se vogliamo scoprire come siamo arrivati al pesto dobbiamo andare molto più in là. Sia nel tempo che nello spazio.

In una collezione di documenti cuneiformi appartenente all'Università di Yale (USA) figurano tre tavolette che all'inizio erano state scambiate per prescrizioni farmaceutiche e che, dopo un attento esame, si sono ben presto rivelate delle raccolte di ricette gastronomiche.

Scritte in lingua accadica e datate all'incirca 1700 a.c., sono il primo documento storico di ricette di cucina e l'aglio fa la sua prima comparsa come ingrediente culinario.

Questo bulbo, si pensa originario dell'Asia centrale e dell'India, è stato portato verso occidente attraverso gli scambi commerciali ed i movimenti di popoli, per approdare molto presto nel bacino del Mediterraneo.

Da quando esiste la scrittura, esso è segnalato in Grecia, in Egitto, in Palestina, fino ad arrivare a Roma e da qui estendersi a tutto il mondo allora conosciuto.

Da sempre consumato per le sue virtù, ha accompagnato l'umanità nel suo percorso gastronomico fino ai giorni odierni.

Nella storia è consumato da solo, oppure inserito come ingrediente in molti piatti, fino a crearne condimenti veri e propri. Le prime salse all'aglio di cui si ha notizia, erano realizzate con vari elementi liquidi, come agresto (succo di uva acerbo), aceto, succo d'arancia o da vino, erano cioè salse non unte, amalgamate senza l'utilizzo di condimenti grassi, né di origine animale (burro), tantomeno vegetale (olio di oliva).

L'agliata (agiadda o aié in dialetto ligure), una salsa medioevale diffusa in tutta Italia, a base di aglio pestato, potrebbe essere considerata tra le prime salse unte, a base di olio di oliva, della gastronomia.
Di essa esistono diverse versioni, legate soprattutto alla zona di produzione. Così troviamo l'agliata con olio di olivo nell'entroterra ponentino ligure, mentre sulla costa veniva prediletto l'aceto.
In Val Pentemina, sopra Genova, al confine con le province di Alessandria e Piacenza, la versione prevede la crema di latte (panna) raccolta per affioramento.

Tutte le ricette di salse a base d'aglio che ci sono state tramandate dalla tradizione, prevedevano varianti negli ingredienti, sia per la loro reperibilità (noci, pinoli, latte, olio) sia per l'evoluzione dell'arte cuciniera.

Il battuto d'aglio pentemino, in particolare, riporta tutti gli ingredienti dell'attuale pesto con la sostituzione della panna di latte al basilico.

Dopo l'aglio, il basilico
Come sia entrato il basilico all'interno del battuto d'aglio, non ci è dato sapere per certo, però abbiamo la ricetta originale di una salsa che accompagnava minestre di verdure e che era, forse, l'evoluzione di una salsa precedente di aglio e basilico, cui è stato aggiunto il formaggio.

Nel "La cuciniera genovese", titolo di una raccolta di ricette genovesi del 1863, l'autore indica la quota casearia del pesto in un mix di parmigiano e formaggio d’Olanda (allora assai diffuso a Genova, per via di scambi commerciali storicamente privilegiati con i Paesi Bassi, vedi precedente post), successivamente sostituito con il pecorino sardo (fresco o stagionato, a seconda dei gusti) in città, e con la «prescinseua» nell’area del Levante e del Tigullio (variante ancora attuale). Inoltre venivano citate, in sostituzione del basilico, altre erbe, come prezzemolo o maggiorana.

Il pesto attuale ancora non era definito.

Successivamente, a distanza di alcuni anni, copiandone la ricetta ed aggiungendone molte altre (forse troppe), Emanuele Rossi diede alle stampe il suo volume "La vera cuciniera genovese facile ed economica ossia Maniera di preparare e cuocere ogni genere di vivande".

Nel 1910, Emerico Romano Calvetti, facendo una stringata sintesi delle due cuciniere, dà una sua versione, citando la ricetta n° 39, la battuta o savore d'aglio, con la eliminazione definitiva del formaggio olandese.

Ancora nel 1918 un ufficiale genovese dell'esercito, Giuseppe Chioni, scrisse un libro di ricette intitolato Arte culinaria, che tra gli ingredienti del pesto indicava: basilico, aglio, prezzemolo, cipolla, droghe, formaggio sardo.
Nessuna traccia ancora dei pinoli. La conclusione ovvia che si può trarre è che l'uso dei pinoli (o delle noci come riportanto alcune ricette) nella preparazione del pesto sia una pratica decisamente recente.

Per questa ragione "agganciare" la ricetta del pesto ad una DOP, limiterebbe la tendenza tradizionale a successive mutazioni ed evoluzioni di questa salsa che tanto si è trasformata nel corso del tempo. Anche se, forse, salverebbe temporaneamente le tasche di qualche produttore locale di "pesto in barattolo DOP".

Più sensatamente, e direi con lungimiranza, si è attribuito il DOP alla produzione del suo ingrediente principale: il basilico.

La "tipicità" del basilico ligure
A rendere unico il pesto genovese, è proprio il basilico, o meglio tre delle sue 69 varietà.

Nel corso degli anni in Liguria si sono affermate alcune varietà di basilico adatte per la produzione di basilico tipico genevose, e caratterizzate dall´assoluta assenza di sentore di menta, da un profumo molto intenso e gradevole, nonché da una colorazione delle foglie particolarmente tenue.

Le caratteristiche citate, peraltro facilmente riscontrabili anche nelle successive trasformazioni della materia prima, sono determinate dalle particolari condizioni pedoclimatiche del territorio ligure.

Dario Bressanini, in un suo articolo nell'edizione on-line di Scientific American versione italiana, analizza approfonditamente alcuni studi che sono stati portati avanti sul basilico. In estrema sintesi, da questi risulta che la metodologia adottata nella coltivazione e nella scelta delle piantine di basilico come avviene in Liguria, ha una base scientifica, ancorchè raggiunta empiricamente e per tentativi dai nostri agricoltori.

La dimensione delle piantine , quindi l'età, l'esposizione al sole, i metodi di lavorazione del basilico per ridurlo a pesto, sono tutti elementi importanti che si riflettono nella riuscita organolettica di un pesto ligure, o meglio genovese.

Le stesse piantine, coltivate altrove, subiscono una alterazione nello sviluppo degli olii aromatici ed alterano, in definitiva, la riuscita di un pesto che abbia gli stessi aromi di quello che si può consumare in riviera.

Del resto, mio nonno già sapeva che se avesse mandato una piantina di basilico genovese a suo cognato di Cuneo, sarebbe cresciuta con un forte sentore di menta, e quindi preferiva rimandarlo a casa con dei barattolini di pesto coperto da un velo d'olio.

Ma allora, quale è la ricetta definitiva del pesto?

La ricetta "definitiva" del pesto
La risposta non è semplice perchè non è unica.

La base da cui si potrebbe provare a partire è quella della ricetta del consorzio genovese del pesto, quel consorzio che come abbiamo visto in apertura sta cercando di ottenere la DOP. E' sicuramente una ottima base di partenza e che permette la riuscita di un ottimo pesto, carico delle sfumature aromatiche tipiche di come lo si consuma oggi a Genova e dintorni.

Un profano, ovvero un non-ligure, seguendo la ricetta indicata sopra riuscirà ad ottenere un ottimo pesto, ma per un ligure la cosa è differente:
in ogni singola casa si realizza il pesto come si è abituati, con le percentuali di ingredienti che non vengono mai misurate sul bilancino, ma aggiunte ad occhio, o meglio a palmi, manciate e pizzichi, dalla massaia che lo sta preparando e che lo ha preparato e visto preparare innumerevoli volte sin da piccola.

Del resto il senso del gusto si origina allo svezzamento e cresce ed evolve nell'arco della nostra intera esistenza, ma su questo torneremo in un altro post.

Abbiamo visto come il cebiche, piatto eletto rappresentante del Peru, si sia evoluto in oltre 2000 anni di storia, così il pesto, figlio di tradizioni culinarie precedenti, ed a seconda dell'area di produzione, potrebbe vedere l'aggiunta o la sostituzione di determinati ingredienti: pinoli con noci, prescinseua al posto del grana o del pecorino, e così via.

Rimangono immutabili solo l'aglio, l'olio ed il basilico, questi sì elementi fondamentali per raggiungere la sublime aromaticità del pesto ligure.

lunedì 24 agosto 2009

100 e 1 cebiche (o ceviche)

PIATTO DICHIARATO PATRIMONIO CULTURALE DELLA NAZIONE

Il piatto peruviano più famoso ed eletto come il "piatto nazionale" è il Cebiche che si realizza con filetto di pesce molto fresco tagliato a cubetti e cotto a crudo col succo di limone, cipolla tagliata sottilissima e un pizzico del piccantissimo ajì, nome di un particolare e potentissimo peperoncino peruviano.

In altri paesi della costa Pacifica fino ad arrivare in Oceania esistono altri tipi di Cebiche, ma nessuno può confrontarsi col peruviano del quale esistono, tra l'altro, una cinquantina di versioni.

Naturalmente tutti i ristoranti di Lima fanno a gara per preparare il miglior Cebiche della città, il che è anche una gran impresa, vista la competizione che devono affrontare con i giapponesi peruviani.

Una ventina di anni fa fecero moda con un Cebiche "al dente", ispirandosi al crudo Sahimi, oggi questa moda si è trasformata nella normalità con la variante chiamata "tiradito" che non viene preparato con cipolla, i cubetti di pesce sono più grossi ma si presenta con salse diverse e gustosissime.

Alcuni aggiungono al Cebiche un tocco di "sillau", salsa di soya, altri più audaci aggiungono mostarda, frullata con ajì giallo o lattuga, brodo di pesce, vino bianco, alcune gocce di latte e, questi intenditori del buon palato non solo si limitano a farlo col pesce, ma presentano la pietanza guarnita con tutti i tipi di frutti di mare del litorale peruviano, come: gamberetti, gamberi, polipi, vongole, cozze, calamari, lumache di mare, ricci.

Si può servire anche caldo, fritto e sempre accompagnato dallo stimolante ajì piccante.

Andiamo a scoprire, insieme ai più rinomati chef di Lima, i vari cebiches e come nessuno di essi sia migliore di un altro. Semplicemente tutti formano una sola grande squadra vincitrice che si chiama: il cebiche peruano.

Andiamo a trovare, per iniziare, Humberto Sato, creatore della cucina Nikkey, la cucina di fusione nippo-peruana.

Humberto Sato
Costanera 700
Av. Del Ejercito 421
Miraflores, Lima








Domanda: Quanto è cambiata la ricetta dei tuoi ricordi dalla ricetta odierna?
Risposta: Principalmente nel colore, no? Oggi il cebiche è.. bianco.
D: Era giallo prima?
R: Si era giallo per la pasta di aji amarillo.
D: Con cosa si accompagnava?
R: Con camote e con choclo. Anche con patate e choclo
D: Di quali anni stiamo parlando?
R: 50, 51, giù di li.
D: Ed il metodo attuale, semplicemente di mischiare il pesce con il limone e servirlo?
R: All’epoca si lasciava macerare parecchio. Si teneva in un vassoio, no? E logicamente il pesce “buttava” il sugo, e questo sugo veniva chiamato “leche de tigre” (latte di tigre).
D: E quale è la tua “verità” oggi? Come si prepara per te il cebiche?
R: E’ molto difficile rispondere, perché… esistono gusti differenti.
D: Modifico la domanda: cosa NON si deve fare nella preparazione del cebiche?
R: La base: quanto più è fresco il pesce, meglio è. Quanto più è fresco il limone, meglio è. Quindi NON si deve utilizzare pesce che non sia freschissimo. Inoltre, non saprei dirti se questo va o non va, ma a me piace che abbia la sua fogliolina di insalata.
Nel cebiche tutto ha una sua giustificazione. La lattuga non ha una funzione decorativa in realtà, ma una funzione rinfrescante per il palato. Il camote ha la funzione di equilibrare, uno mentre mangia dice: acido, acido, acido, acido, pum un pochino di dolce (ed accentua il sapore), ed inoltre, un cebiche è proteina pura mentre il camote ed il choclo aggiungono la parte di carboidrati necessaria ad equilibrare il piatto.
D: Cosa è stato a rendere tanto famoso il tuo cebiche?
R: Guarda, io non mi complico la vita, né la complico al commensale no? Il mio cebiche si potrebbe dire che è il più semplice, non ha un sapore aggressivo. Una volta che è pronto, gli aggiungo il brodo di pesce. E’ un sapore soffice, non forte o aggressivo.
D: E quale è il cebiche che più piace a te?
R: Bene, io sopra gli metto sillao (salsa di soia). E ti cambia completamente il sapore. Però, ed è importante, non cessa di essere cebiche.
D: Sarebbe come dire che tu non sei peruano, no?
R: ahah certo, ahah, proprio così.

Esistono varie tendenze, il cebiche cambiò, si modernizzò, si adattò al gusto della gente, si preparò crudo. In Lima ci sono varie persone che si attribuiscono il merito di avere inventato il cebiche moderno.

Una di queste è Pedro Solari, "Pedrito" per i peruani. Sulla breccia da 85 anni ma ancora vispo e gran chef.

Pedro Solari
Jr. Cahuide 995
Jesus Maria, Lima







D:
Il cebiche che si mangia ora è il cebiche che tu facevi?
R: Si, certo.
D: Ed è..?
R: Il “pesce all’istante”. Si taglia all’istante e si fa all’istante.
D: Ma come è nato questo metodo?
R: Guarda, eravamo in mare, pescarono un roballo. Lo aprirono, lo tagliarono e fecero il cebiche. E lo mangiarono all’istante. Venni a Lima, e lo proposi così.

Però ci sono altri che propongono di esternalizzare la ricetta. Solo semplici ingredienti per il cebiche base. Il resto dipenderà dalla destrezza di chi lo prepara e, chiaramente, dalla freschezza degli ingredienti.

Don Cucho è considerato il maestro del cebiche tra tutti i cebicheros del Peru, ed esperto tra le moltissime varietà di pesce che uno può incontrare nel mare del Peru.

Cucho La Rosa
Hacienda Casa Blanca
Pachacamac, Lima
Calle 8 lote 14 – A







D:
Quale è il re dei pesci per il cebiche?
R: Il re lo abbiamo proprio qui: il lenguado. Ma anche tutto il pesce fresco, immacolatamente fresco, va bene per il cebiche. Tutto il processo per la preparazione del cebiche deve essere eseguito al momento. Iniziamo dalla cipolla. Rossa.
D: C’è una ragione per lavare il pesce insieme alla cipolla?
R: E’ per togliere “forza” alla cipolla, il piccante, però contemporaneamente permette di traferirlo al pesce, sottilmente. E poi l’aji Limo. Mi piace usarlo di vari colori, giallo, rosso, per rallegrare il piatto.
E adesso viene un trucchetto che utilizziamo da qualche tempo, e che dà una dimensione speciale al cebiche. Il ghiaccio. Prima di aggiungere il limone. Il ghiaccio si dovrà togliere, si tiene per pochi secondi dentro, ed il limone, non va spremuto e neanche tagliato prima di partecipare al festino del cebiche. Camote morado, camote amarillo, choclo bollito… pronto. Due minuti per preparare il migliore cebiche del mondo.

Qualunque pesce fresco è valido per un buon cebiche. Anche se i maestri concordano nel dire che il lenguado continuerà ad esserne la stella.

Javier Wong è uno dei più famosi chef di Lima. Ma, se non avete l’esatto indirizzo, non riuscirete mai a trovarlo. Il suo ristorante, chiamato Sankuay, non ha insegne e la sua porta è sempre chiusa. Occorre suonare per farsi aprire. Ma dietro a questa porta si può incontrare la vera magia.

Non esistono menu, Wong vi darà un’occhiata e vi farà sapere cosa vi starà per servire.

Chez Wong
Jr. Garcia Leon 114
Santa Catalina, La Victoria, Lima





D:
cosa mi proponi oggi?
R: un cebiche speciale, con ananas.
Aji Limo, ananas e arachidi, e gli aggiungiamo un po’ di prezzemolo. Le arachidi riescono a dargli un certo bilanciamento, e l’ananas si fonde completamente. Eccolo, pronto, che profuma di completa freschezza.

La tolleranza è una gran virtù della cucina peruana, accettando e fondendo insieme, per costruire qualcosa di meraviglioso.

Contemporaneamente i peruani, a seconda della regione di provenienza, dicono: no!, nel cebiche non si usa questo ingrediente! Si usa quest’altro! I limeñi, per esempio, sosterranno ad oltranza che con il cebiche occorre servire camote e nient’altro che camote, però… andiamo a scoprire che non sempre è così.

In Avenida Garzon, troviamo il ristorante "Don Fernando", specializzato nella cucina del nord del Peru, ed il suo chef, Fernando Vera.

Fernando Vera
Don Fernando
Av. Garzon 1788
Jesus Maria, Lima







D:
La prima variante tra il cebiche del nord e quello del sud?
R: E’ l’aji mocero, il mocerito. Ma anche l'aji cerezo di chiclayo.
D: Nella preparazione abbiamo già una differenza, giusto? Differenti aji a seconda della zona del nord dove si prepara, ma anche per quanto riguarda il pesce?
R: Si. Noi utilizziamo il tojo gato, ha una carne straordinaria. E poi la razza, lavata solo con acqua di mare. Ed infine il re del pacifico: il mourique. E poi la cosa che è comune a tutti e che nel nord non ha eguali: il migliore limone del Peru. Facciamo anche cebiche di conchitas (frutti di mare), granchio, ed ogni cebiche ha la sua consistenza particolare a seconda del pesce che viene utilizzato.

Finiamo il tour con il più grande chef attualmente vivente del Peru ed ambasciatore della cucina peruana nel mondo: Gastón Acurio.

Astrid&Gastón
Calle Cantuarias 175
Miraflores, Lima








D:
ci mostreresti la preparazione di un buon cebiche?
R: Certo! Abbiamo questi ajies, i cerezos di lambajece, l’aji mocero, meraviglioso, di Trujillo, abbiamo questi ajies della foresta amazzonica, assolutamente inediti, e poi l’aji charrapita e l’aji pipiemono.

Io sono a Lima e l’aji naturale qui, per fare un buon cebiche è l’aji limo. Abbiamo il rosso, il giallo, il moradito, però adesso utilizziamo il limo rosso che è un po’ l’aji che ci rappresenta in Lima. Ok?
E poi, che pesce? Utilizziamo la corvina. Noi che siamo cresciuti ed abbiamo vissuto a Lima, abbiamo sempre usato la corvina, perché questo pesce è quello naturale che si trova nella costa periferica di Lima, sia a nord che a sud.

E per il limone questo, quello del nord. Il nord del Peru ha una condizione geografica e climatica tale per cui il loro limone ha un sapore praticamente insostituibile. E voglio accompagnare questa corvina con questi altri prodotti. Questi calamari sono stati pescati in Raura, e poi le conchas bianche (molluschi).

Specificare la dimensione dei pezzetti di pesce, più grandi, più piccoli, bhe qui stiamo entrando nel regno del gusto personale. Prendiamo una ciotola grande di vetro, mettiamo i calamari, le conchas, e ora vi insegno un segreto che ho appreso molto tempo fa.

Voglio dargli l’aroma e l’aroma dell’aji limo è inconfondibile, ne prendo un pezzo e lo strofino energicamente sul fondo della ciotola perché rimanga l’aroma e venga trasferito al pesce. Aggiungiamo un pizzico di sale, ed iniziamo a spremere il limone.


Un altro segreto che mi ha insegnato Don Cucho, riguarda il limone. Se uno lo spreme troppo, automaticamente trasferisce l’amaro della parte bianca nel succo del limone spremuto. Il limone va spremuto con leggerezza, senza distruggere la parte esterna. Poi cipolla rossa, un altro segreto: non dovete essere taccagni con la cipolla, toglietele la parte centrale per toglierle l’asprezza e lasciarne l’aroma.

Una girata, due, pronto! Ecco questa è la base, e a partire da qui si può aggiungere quello che si preferisce, e non state a sentire quelli che vi dicono: - non gli mettere questo, non gli mettere quello – si stanno sbagliando. Se ti piace lo zenzero, mettigli un po’ di zenzero, se ti piace l’aglio, mettigli un po’ di aglio, se ti piace il culantro, aggiungilo, vale anche per il sedano o per qualsiasi altro sapore. Sperimentate! Provate!


Questo è l’universo del cebiche peruano oggi, ma il cebiche ha una storia plurimillenaria.
Il cebiche viene da lontano, non nello spazio ma nel tempo. I limoni vennero importati in sud america dopo che Colombo scoprì il nuovo mondo, e quindi, gli ingredienti che venivano usati erano differenti.

Si parte dai Mochica, intorno all'anno 100 del nostro calendario, antico popolo del nord del Peru. Grandi pescatori, avevano pensato bene di combinare il pesce fresco con il succo fermentato di tumbo. I Mochica non esistono più ma il tumbo sì, ed ha (ovviamente) un gusto particolare.
Leggermente dolciastro, assomiglia (molto vagamente) al nostro melone, ma non tanto dolce. Di solito si "beve", ovvero si preparano dei fantastici frullati dissetanti di tumbo.

Qualche secolo dopo, nel 1400 avanzato, durante l'impero Inca, il pesce veniva marinato invece con la chicha.

La chicha era, ed è, una bevanda alcoolica prodotta dalla fermentazione non distillata, del mais. Veniva usata sia per libagioni, che in medicina (come anestetico), che in offerte propiziatorie al dio sole: si pensava che il mais fossero le lacrime del sole, dato il suo colore dorato, quindi veniva offerta la bevanda che si elaborava dal mais.

Sempre in quel periodo, al largo delle coste del Peru, oltre alla chicha aggiungevano già il sale e l'aji alla marinata di pesce.

Con i conquistadores arrivarono in sud america anche la cipolla ed il limone, e quest'ultimo, ha permesso di accorciare i tempi di preparazione di questo piatto.

Ma prima di arrivare alla ricetta odierna vera e propria abbiamo un'ultima deriva: l'arancia.

Le mogli (more) dei conquistadores, facevano macerare il pesce con aji, sale e arance asprigne, e lo chiamavano "sibech" che in lingua araba significa "pranzo acido".

Per quanto riguarda l’etimologia della parola cebiche, esistono varie "scuole" di pensiero:

  • Scuola spagnola, suggerisce che la parola cebiche possa derivare dall'arabo "sikbag" che identifica un metodo di conservazione degli alimenti con liquidi acidi, come l'aceto (da cui deriva anche l'escabeche spagnolo o scabeccio ligure.
  • Scuola peruana, fanno derivare la parola cebiche dalla parola quechua "siwichi" che significa pesce fresco o pesce tenero.
  • Scuola mista, presume che le due parole "sikbag" e "siwichi" si fusero nell'attuale cebiche dopo l'invasione degli spagnoli.
  • Uno storico moderno, Juan José Vega ha proposto l'origine dalla parola araba "sibech", quella delle arance vista sopra.
  • Infine la scuola dei pescatori: la derivazione della parola cebiche come diminutivo di "cebo" ovvero qualunque alimento utilizzato come esca per pescare. I pescatori arabi ed in seguito gli europei erano preparati a mangiarsi l'esca in caso avessero una pesca infruttuosa, ed erano soliti "cucinarsi" l'esca proprio con limone.

Esiste un'altro riferimento a cebo, ovvero all'esca: era la "carnada" ovvero l'esca che utilizzavano i pescatori di origine negra sulla costa peruana. Quando il padrone dell'imbarcazione diceva che era ora di mangiare, compartiva "l'esca pescata" (ovvero il pesce di piccola taglia da usare come esca, il cebo), che era crudo e che aveva, diciamo, un "forte odore", quindi i pescatori aggiungevano limone per cucinarlo, aji, aglio, cipolle e sale per renderlo più gradevole.

E dopo questa passeggiata nel mondo del piatto nazionale peruviano non mi rimane che dirvi:


Buon aprovecho! (Buon appetito)

domenica 23 agosto 2009

L'anima della cucina ligure: dalla maggiorana al preboggiòn

In un altro post, ho descritto cosa penso dei piatti "tipici" e dei piatti "tradizionali" di una cucina e di come questi siano espressione dell'evoluzione alimentare di un popolo.

La cucina ligure, sin da tempi antichi, è tutt'altro che una cucina povera, luogo comune che ci trasciniamo dietro da molto tempo.

Del resto, basta pensare semplicemente alla storia di Genova, e quindi di buona parte della Liguria, ad essa vincolata, per rendersi conto che la tavola non poteva non essere influenzata dagli sviluppi politici e commerciali del capoluogo.

Ingredienti "esteri" e spezie orientali entrano molto presto nella storia culinaria ligure, di pari passo allo sviluppo delle colonie genovesi in buona parte del mondo allora conosciuto.

Dal Mar Nero, che veniva chiamato il "Lago genovese", fino al Nord Europa, Genova è riuscita ad intrecciare una fitta rete commerciale e finanziaria fin dall'epoca della prima crociata, diventando centro di scambio per merci, da e per tutto l'occidente ed il nord.

Le abitudini alimentari dei genovesi, cambiarono in fretta in quel periodo, con l'acquisizione delle nuove tecniche di conservazione alimentare apprese in oriente e sfruttate poi sia per il mercato interno, quando d'inverno gli approvvigionamenti via mare erano praticamente fermi, che per quello "esterno", ovvero il mercato centro-settentrionale europeo, giocando un ruolo decisivo sull'andamento dei prezzi nelle varie carestie cicliche che colpivano l'Europa.

A differenza di Venezia, proiettata solo verso l'Oriente, Genova curava i propri rapporti anche con tutto il bacino occidentale del Mediterraneo, da Granada a Castiglia fino a Lisbona ed oltre, nei mercati e porti francesi, inglesi e olandesi. Ma anche Marocco, Tunisia, Algeria, erano tutti mercati vitali per Genova e le sue "maone" commerciali, al pari delle colonie sul mar nero e nel vicino oriente (vedi foto - torre galata nel quartiere "genovese" di Istanbul).

Da questa posizione predominante nell'economia europea dell'epoca, e dalla sua abilità nella conservazione e lavorazione delle materie prime, derivano la maggioranza dei piatti tardo-medioevali genovesi: pasta, ripieni, salse, spezie, formaggi freschi, uova, verdure, semi oleosi (noci, pinoli o mandorle, derivate anch'esse dal medio oriente).

Poca carne o pesce freschi, la liguria non è terra da pascolo ed il mare veniva utilizzato per commerciare più che per pescare (rendeva di più essere mercante che pescatore ovviamente).
Al pesce azzurro, plebeo, quando possibile si preferiva storione e caviale. Alla semplice carne abbrustolita, all'epoca massima espressione di ricchezza nel nord europa, si prediligevano già piatti elaborati, paste ripiene, dolci.

Ma esiste un filo d'unione che parte dalla cucina pre-coloniale medioevale ed arriva fino a quella moderna, dove il pomodoro è entrato di forza nella cucina novecentesca ligure: le erbe aromatiche.


Così come l'aji è il carattere della cucina peruana, le erbe lo sono di quella ligure, e sono elemento fondamentale ed indispensabile nella maggioranza delle preparazioni dei nostri piatti.

Se qualcosa di "tipico" vogliamo indicare nella nostra cucina, modellata da così tanti influssi stranieri, allora possiamo dire che è proprio il "gusto" della maggiorana, della salvia, del timo, del rosmarino, dell'alloro, che ritroviamo in quasi tutte le ricette, antiche e moderne, della nostra regione (il basilico, base del pesto, attuale vessillo regionale, entrerà molto più tardi nella nostra cucina).

Un elemento tipico, sopravvissuto fino a non molti anni fa, ed oggi più raro da assaporare, è il Preboggiòn, che contemporaneamente può essere considerato piatto, quando consumato da solo o ingrediente quando è di base nella preparazione di altri piatti (ad esempio il ripieno dei pansoti).

E' un insieme di erbe spontanee la cui raccolta da sempre viene eseguita un po' in tutta la Liguria, e non solo, acquisendo però da zona a zona denominazioni diverse. Nel Ponente si definiscono erbette, in altre regioni, soprattutto del Centro Italia sono note con il nome di crescione. Le erbe che compongono questa miscellanea variano da valle a valle e in funzione della stagione.

Oggi è più difficile reperire in modo tradizionale queste erbe perché sono sempre più rare le persone in grado di riconoscerle.

Le erbe più comunemente raccolte sono le seguenti: talaegua (Reichardia picroides), scixerbua (Sonchus oleraceus), bell'ommo (Urospermum dalechampli), dente de càn (Taraxacum officinalis); borraxe (Borrago officinalis); ortiga (Dioica), pimpinella (Sanguisorba minor); denti de cuniggio (Hyoseris radiata); papàvau ( Papaver roeas); gê (bietole).

L'erba maggiormente apprezzata è la talaegua: più è presente e migliore risulta il preboggiòn.

Questa miscellanea di erbe viene semplicemente bollita e condita con olio e limone per accompagnare deliziose focaccette; oppure viene utilizzata per il ripieno dei più famosi pansòti.

Ingredienti
2 Kg di preboggion , 1/2 di patate, 3 spicchi d'aglio, sale olio, grana.



Preparazione

Lavare il preboggiòn ed eliminarne i gambi. Porre le patata a bollire, tagliate a pezzi e sbucciate; aggiungere poi le erbette. Dopo circa 10 minuti scolare, strizzare e passare il tutto in padella con l'olio, gli spicchi d'aglio, ed un pizzico di sale; volendo, aggiungere 2 filetti d'acciuga e una manciata di formaggio di grana. Servire insieme a formaggette o frittelle salate.


sabato 22 agosto 2009

Piccolo viaggio nel mondo dell’aji (peperoncino) peruano.

Non c'è dubbio che il genere umano sia imperfetto.

E che per noi la vita è odio e amore, generosità e avarizia, ira e serenità, ringraziamento e dimenticanza.
La dimenticanza è interessante; per imperfezione, a volte, ci dimentichiamo delle cose più importanti, a causa della loro quotidianità.
Persone, cose, situazioni, che per essere sempre presenti, sin da quando nasciamo, tendiamo a non valorizzare nella giusta misura.

Oggi parliamo dell'aji e dell'importanza dell'aji nella vita di un peruano. Sarebbe possibile la vita di un peruano senza l'aji? Sarebbe possibile l'esistenza della cucina peruana senza l'aji?

Per parlare di aji non si può parlare di un solo aji ma di un "mondo" di aji peruano, dove ogni singolo aji ha marcato il proprio territorio per la felicità dei commensali.

Andiamo a scoprire questi territori.

L'aji amarillo (capsicum baccatum).












"Uchu" era l'antico termine quechua, Colombo lo ribattezzò il pepe delle Indie, Garcilaso de la Vega lo descrive nelle sue cronache come l'essenza della cucina peruana.

L'aji amarillo riporta un peruano all'inizio della propria vita. Sin da bambino, quando un peruano apre la porta del frigorifero, troverà sempre un vasetto con un po' di pasta giallo oro di aji amarillo fresco appena macinato.
Questa pasta è quella che ha dato vita a tutta la storia dell’infanzia di un peruano. Alla “causa”, all”aji de gallina”, al “cau-cau”, allo “yuquito”, eccetera. L’aji amarillo è, per un limeño, probabilmente la cosa più importante della sua vita.



E per partire bene in questa storia dell’aji, sentiamo cosa ne racconta Isabel Alvarez, la più acclamata chef donna peruana che gestisce da 20 anni il glorioso Señorio de Sulco. Nel suo bel ristorante, costruito in puro stile coloniale nell’esclusivo quartiere di Miraflores, ha iniziato un prezioso lavoro di ricerca, raccolta e documentazione su tecniche, prodotti, usi, costumi e tradizioni delle diverse regioni andine, mettendo a frutto i suoi studi in campo sociologico e antropologico.

“Esiste un bacino originario nelle Ande, tra Peru, Equador e Bolivia, però credo che dove è stato sviluppato maggiormente, per la particolarità e la peculiarità della terra, sia proprio il Peru.
E’ il più buono, il più gustoso, il più festeggiato perché ha una fragranza ineguagliabile.
Esiste anche in Messico: l’aji mirasol, stesso identico nome, però questo aji è arrivato in Messico dal Peru. Questo è importante che lo sappiano i peruani!

Il Messico ha una maggiore varietà di aji. Però il Peru ha un numero maggiore di specie di aji, il che, geneticamente, è più importante. In Messico è presente solo una specie ma in Peru esistono quattro specie differenti.

Per esempio l’aji amarillo è il capsicum baccatum che in Messico è chiamato habanero. Il rocoto, invece, è il capsicum pubescens, e questo è il capsicum chinense (aji panca). Ed il quarto è dell’amazzonia, l’amancio (capsicum annuum, quello comunemente coltivato anche in Italia), l’aji piccolo, ed ogni singola specie ha sviluppato delle varietà differenti a seconda di dove è coltivato, a seconda del tipo di terra, dell’altitudine, dell’aria. In zone diverse, sviluppano caratteristiche differenti. E questa microagricoltura è da considerarsi una virtù, non una limitazione.

Quando uno entra nella sierra de Huaral incontra dei campi sterminati di aji amarillo che stanno seccando al sole e si convertiranno in quello che è chiamato aji mirasol. Ed il mirasol può diventare più piccante dell’aji amarillo, e sviluppa un aroma differente.


Ma dove è il piccante in un aji? Togliamo la placenta (la parte carnosa interna che sostiene i semi). I semi non sono minimamente piccanti, ma tutto quello che è carnoso della placenta è quello che sviluppa il piccante. Le pareti dell’aji non sono piccanti, sono composte per la maggior parte da acqua e da una sostanza dolce e fruttata. Per questo l’aji mirasol, quando lo cucini lentamente e lo provi sulla lingua, avverti una punta di dolce.

L’aji è un sentimento, l’aji è una emozione, è una memoria, sono migliaia di anni di cultura, l’aji è la base della cultura Inca del Peru.”





L’aji Limo (cultivar di capsicum chinense).

Se prendiamo una ricetta della cucina peruana e la compariamo con una ricetta di una cucina come quella europea, la spagnola per esempio, possiamo renderci conto che l’80% degli ingredienti sono simili quando non uguali. Ed anche l’80% del procedimento è identico.

Quale è la differenza? Ci sono due o tre ingredienti, che rendono ciascuna cucina, una cucina identificabile. Per esempio nella cucina giapponese, sono la salsa di soia e la salsa wasabi che permettono, quando uno prova un piatto senza guardare, di dire: “ahh questa è cucina giapponese!”.

Quando uno prova la cucina spagnola o quella italiana, è il pomodoro, l’aglio, l’olio di oliva. Quando uno prova la cucina peruana, l’ingrediente che la identifica è l’aji. E’ quello che le dà il carattere peruano e l’identità peruana.
Però dentro la cucina peruana esiste un tipo di aji per ogni stile di cucina.

E nel mondo del cebiche questo aji è l’aji “limo”.

Nguyen Chavez, della cebicheria “pescados capitales” situata in Miraflores a Lima, ci racconta come l’aji limo influenzi la preparazione del cebiche.

“Senza aji non esiste il cebiche. Si può discutere sulla quantità, più o meno, ma senza l’aji non è un cebiche peruano. Compresi i turisti, che di solito non sono molto abituati al piccante, trovano l’aji nel cebiche. Gli si dice – non è piccante, giusto un “tocco”. –
Nel mondo del cebiche, la stella è l’aji limo. Puoi sperimentare con altre varietà di aji ma, poi, torni all’aji limo.”

L’aji Panca (cultivar di capsicum chinense).

Spostiamoci di poco e rimaniamo a Miraflores per andare a fare una piccola coda, e scoprire l’aji panca.
In un angolo di Lima, un famoso angolo di Lima, tra due vie principali, tutte le notti a partire dalle 7 di sera, la Sig.ra Grimanesa si installi qui con il suo carrettino meraviglioso di anticuchos, e fa in modo che si formi una coda lunga anche 2-3 ore per provare la sua meravigliosa mano.

Hola Señora, muy soave su anticucho!” “Lo prepariamo all’istante, solo un minuto che arriva!

L’aji panca è l’ingrediente principale della marinata con cui si preparano gli anticuchos, pezzi di cuore di vacca, marinati per un giorno e poi grigliati su spiedini ed accompagnati da choclo, camote e yuca.

Il nome dell'aji panca descrive il frutto secco, rosso e maturo del capsicum chinense. La cultivar "panca" è determinata dal sapore, dalla testura e dal colore. L'esemplare conosciuto più antico è stato scoperto nella Cueva Guitarrero sulla costa del Peru ed è datato circa 6.500 a.c.

Può essere utilizzato come condimento o come pigmento, però è principalemente utilizzato come ingrediente di vari piatti tipici.


Il Rocoto (capsicum pubescens).

Di tutti gli aji ne esiste uno che è considerato in maniera speciale. E’ quello che, familiarmente, viene chiamato “ajisito”, è quello che regala il piccante a qualunque “ghiso”, è quello che sta sempre in cucina, spesso in polvere. Senza dubbio questo aji nella zona sud e centrale del Peru, significa molto di più. Questo aji è un ingrediente indispensabile per la maggioranza dei piatti che vengono creati nella cucina di Arequipa, nella cucina del sud. Il Rocoto.

Fortunatamente, per entrare nel mondo del rocoto non è necessario arrivare fino ad Arequipa, perché in Lima esistono molti ristoranti di cucina tipica arequipeña. In particolare a Les Tres Marias, c’è una signora arequipeña, grande lavoratrice, che in molti anni ha costruito questo rifugio, e dove conserva la tradizione arequipeña: la Sig.ra Luisa Zegarra.



Senza l’aji amarillo il Limeño non può vivere, ma in Arequipa è indispensabile il rocoto. Base di molte specialità non ultima quella del rocoto relleno, servito con le sue patate dorate. Con il rocoto si preparano molti piatti, ad esempio il solterito de queso, con rocoto, questo piatto invece, lo scrivano, con rocoto, le salse che facciamo ad Arequipa.. tutte con rocoto!

Senza rocoto non si può vivere in Arequipa, il rocoto è per tutto. Ancora si usa, per tradizione, tritare il rocoto fresco, oppure tagliarlo a rotelle, aggiungere un po’ di sale, un po’ di olio di oliva e mangiarlo puro. In molti piatti il rocoto è indispensabile come ingrediente, ma esiste un piatto dove il rocoto è il protagonista: il rocoto relleno. Il segreto per fare un rocoto relleno meraviglioso è toglierli il piccante, il cuore. Perché la gente possa mangiarlo tranquillo, te lo mangiano anche i bambini. Questi picarones sono in stile arequipeño, noi li chiamiamo buñuellos, non mettiamo carote e zucca ma al loro posto il rocoto.

E, al termine di questo piccolo viaggio nel mondo dell'aji, vediamo come possiamo prepararci in casa un po' di crema di aji amarillo.

Dove possiamo trovare l'aji amarillo peruviano in Italia

Occorre trovare un negozio importatore cosa relativametne facile nei grandi centri ma anche in tutti quelli dove si sia sviluppata una comunità latinoamericana. Spesso, si trova fresco.


Come si prepara la salsa di aji (ossia il concentrato)

Occorre lavare l'aji e tagliarlo a pezzetti. Come tutti i peperoncini, al suo interno troviamo la placenta, più chiara, che sostiene i semi e che è la vera anima piccante. Sta a voi decidere quanto toglierne e quanto lasciarne (anche il resto dell'aji ha un suo grado di piccantezza anche se più blando).

Tagliato a pezzetti si mette in un frullatore e si aggiunge ad occhio dell'olio.

Che olio usare? bhe in Peru, ovviamente, l'olio più utilizzato in cucina è quello di semi. Qui in Italia lo si può preparare anche con olio di oliva (magari un olio leggero), il gusto cambia leggermente rispetto all'originale, quindi se avete a cena un peruano peruano magari fatelo con
olio di semi.

Quanto olio usare? come dicevo prima si va ad occhio, la crema che ne risulta deve essere molto "spessa" diciamo come una buona marmellata densa.

Infine si "aggiusta" di sale (poco in ogni caso) e si conserva in frigo o lo si divide e lo si mette in freezer.

Ok ora ho la salsa de aji che ne faccio? lo conservi, porti pazienza e aspetti che ti descriva le ricette gustosissime che ho imparato a fare :-D